Ave Cesare, gentiluomo di un calcio che fu
di Massimiliano Morelli – Pareva immortale uno come Cesare Maldini, primo italiano capace di alzare una Coppa dei Campioni al cielo. Roba d’una vita fa, è vero, ma quell’istantanea storica che lo vede in trionfo nello stadio di Wembley (nel 1963), capitano del Milan e al fianco di Nereo Rocco era, è e resterà fissata nella mente di ognuno di noi, anche se non facciamo il tifo per il diavolo rossonero. La sua? Una vita dedicata al pallone, con un modo di vivere da silenzioso, senza eccessi né sregolatezze, una esistenza da persona per bene, educata, basti osservare poi il comportamento del figlio Paolo, erede che ne ha ricalcato le orme come milanista e come nazionale azzurro.
Come capitano di lungo corso e soprattutto come uomo. Cesare, ironicamente irriso da un macchiettista come Teo Teocoli, ha rappresentato il calcio italiano come calciatore e come allenatore, ma d’una bacheca zeppa di coppe e medaglie piace accendere la luce su quel ricordo da vice di Enzo Bearzot come campione del mondo nel 1982 (per poi prendere la Nazionale azzurra dal 1996 al 1998 in Francia al mondiale). Quieto, patriarca, uomo ombra educato e gentile, lontano anni luce dal mondo delle provocazioni, tre volte di fila campione europeo con l’under 21 come commissario tecnico – impresa mai riuscita ad alcuno – e straordinario uomo per tutte le stagioni.
Utile per sorreggere Terim e Tassotti nei momenti ispidi vissuti dai due alla guida del Milan, amato perfino in Paraguay, squadra che allenò dopo le italiche esperienze e che al Mondiale nippocoreano (2002) si fermò gli ottavi di finale non senza rimpianti, solo al cospetto d’una Germania che poi sarebbe arrivata in finale, sconfitta dal Brasile. Profeta in Italia e in Sudamerica, dove sbarcò alla soglia dei settant’anni, da uomo navigato e conoscitore d’un football che per molti scienziati del dio pallone rappresentava il terzo mondo, gente incapace di percepire che “Cesarone” non andò a svernare, ma più semplicemente ebbe il coraggio di prendere in mano le redini d’una squadra fino a quel momento guidata da Sergio Markarian, licenziato dopo due sconfitte di fila a opera della Colombia ma soprattutto del Venezuela, che dall’altra parte dell’oceano viene considerato da sempre squadra cenerentola, un po’ come San Marino in Europa. Se n’è andato in silenzio, di notte, come se avesse voluto evitare il fastidio d’un addio terreno e le lacrime di disperazione di chi gli ha voluto bene.
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