Omaggio al Grande Toro, icona della rinascita italiana
(di Massimiliano Morelli) – E’ il giorno della memoria a Torino, perché ogni 4 maggio da quello maledetto del 1949 la mente non può evitare di andare almeno per un attimo al disastro aereo che sulla collina di Superga annientò la squadra più forte dell’epoca.
Negli anni, nei sessantasei (e con questo 67) anni che hanno seguito quell’insopportabile boato i tifosi granata sono stati anche combattuti, se piangere il dramma o vivere il presente cercando di ridurre quel momento di fatalità fatto di sangue e lacrime, dolore e vite spezzate. Tutto vano, anche la resistenza del voler concedere alla memoria il desiderio di ingiallire il ricordo. Otto anni di calcio e cinque scudetti di fila, ai giovani che oggi s’interrogano e chiedono lumi su quella squadra, viene offerta l’istantanea d’una compagine forte, fortissima, e tenti di fare il paragone più spicciolo del tipo “hai presente il Real Madrid o il Barcellona di oggi? Ecco, quello era il grande Torino!”.
Che, per l’Italia, non solo quella “cuore granata”, rappresentò uno spiraglio di luce dopo il buio fitto della seconda guerra mondiale, una sorta di icona della rinascita. E una formazione memorizzata da tutti, una sorta di cantilena gioiosa con la squadra in campo trasformata in una dolorosa litania all’indomani di quel volo interrotto quasi al termine della trasferta lusitana nel corso della quale il Torino aveva omaggiato l’addio al calcio di Ferreira, capitano della nazionale portoghese.
Angoscia misto rabbia e quello sliding doors che si ripropone ogni volta se solo si prova a pensare a chi si salvò da quella catastrofe, tipo l’infortunato Sauro Tomà e il secondo portiere Renato Gandolfi, cui venne preferito addirittura il terzo portiere, accontentato perché non giocava mai, Dino Ballarin. E Nicolò Carosio, che invitato al seguito rispose “no, grazie” solo perché c’era in programma la cresima del figlio. Tutto diventa benedetto e perfino casualità come queste, figurarsi gli acciacchi dell’epoca di Sauro Tomà, classe 1925 e unico superstite di quella squadra che ancora oggi è in vita, unico testimone del Grande Torino, ovviamente per tacere degli altri, che, per un motivo o per l’altro, evitarono il viaggio. La vita è questa, prendere o lasciare.
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