Team GB modello da studiare ma ripartiamo in Italia da un patto sociale con le famiglie
(di Marcel Vulpis) – L’Italia Team ha confermato a Rio de Janeiro i risultati di Pechino2008 e di Londra2016, con ben 28 medaglie, di cui 8 ori (ma nella metropoli verdeoro il numero degli argenti è stato superiore). Questo è il dato positivo.
Quello “negativo” (se proprio vogliamo trovare un “neo”) è se si raffronta il risultato italiano, con quello di Team GB (la selezione olimpica britannica), che ha preso più medaglie a Rio che nella manifestazione organizzata a Londra quattro anni prima (27 ori, 13 argenti e 17 bronzi per un totale di 67 podi a Rio, contro le 65 della rassegna UK olimpica).
Ne abbiamo parlato con l’avvocato Renato Sinischalchi (nella photogallery), esperto di tematiche in ambito sportivo (nel ruolo istituzionale di vice-presidente della SS Lazio Nuoto, presente tra l’altro dal 7 al 18 settembre a Rio con un atleta/tesserato ai Giochi Paralimpici di Rio).
Ma prima analizziamo alcuni dati di questa spedizione: 297 atleti (142 le donne – il 47,81%), contro i 367 di Atene 2004; l’età media pari a 27 anni. Roma la provincia più rappresentata (30 atleti) e il Lazio la regione più vincente (9 medaglie conquistate da 6 diversi atleti). Lombardia invece l’area geografica regionale con il maggior numero di atleti (43).
D: Come è stato possibile questo miracolo?
R: La rappresentativa inglese ha usufruito di una preparazione specifica sicuramente di alto profilo, facendo tesoro anche della propria esperienza olimpica. Noi abbiamo tenuto, considerata la crisi economica/politica su scala nazionale che viviamo quotidianamente. Certamente l’idea di creare un fondo governativo (UK Sport) per le cosiddette “good causes” (come lo sport, ma anche arte, cultura e sociale) dimostra che, coinvolgendo l’intera popolazione, si possono raccogliere risorse economiche importanti. Il tema è quello del coinvolgimento e della partecipazione popolare ad un grande progetto come appunto la sfida o il sogno olimpico di un gruppo di giovani atleti/atlete.
D: In un mercato dello sport sempre più globale, l’Italia, che da 8 anni soffre una crisi endemica a livello economico, rischia di scontare più di altre nazioni questa congiuntura?
R: Sì, certamente. Ecco perché il risultato raggiunto dagli azzurri a Rio ha un valore ancora più importante. Il presidente del CONI Giovanni Malagò, insieme al suo gruppo di lavoro (guidato dal capo della spedizione e della preparazione olimpica Carlo Mornati), ha portato a casa un risultato, per certi versi, superiore alle attese (si parlava prima della partenza di un numero massimo di 25 medaglie, nda), alla luce delle difficoltà del Paese nel reperire risorse economiche. Adesso, però, bisogna iniziare a lavorare, per capire se il modello italiano di reperimento delle risorse sia quello più corretto, soprattutto nel confronto con altri Paesi come la Gran Bretagna.
D: La stragrande maggioranza delle medaglie azzurre, al di là del colore, è legata ad un forte comune denominatore: il “talento”. Quella che sembra mancare è una base molto accentuata di “atletismo”, che, invece, troviamo in altre spedizioni olimpiche. Che idea si è fatta a tal proposito?
R: Geneticamente abbiamo sempre dato il meglio, con tecnica e gesti al limite dell’eroismo sportivo. I fratelli Abbagnale, per esempio, nel canottaggio, erano la metà dei loro avversari. Eppure hanno vinto medaglie olimpiche. Possiamo e dobbiamo migliorare, considerando le nostre strutture fisiche e morfologiche. Valorizzando sempre di più alimentazione, preparazione e quant’altro (come per esempio il supporto della tecnologia e di nuove tecniche di allenamento).
D: Gli inglesi si affidano, dai primi anni ’90, al fondo Uk Sports, finanziato dalle lotterie nazionali, che, di fatto, hanno sposato una serie di “good causes”. Questo modello è replicabile anche in Italia? Perché quando si parla di giochi e scommesse nel nostro Paese si apre un dibattito a carattere sociale, che scade, quasi sempre, sul tema dello sfruttamento dei ludopatici.
R: Le scommesse in passato in Italia hanno rappresentato il “proibito“. Sicuramente destinare parte di questi introiti sui fondi per lo sport sarebbe una bella idea da praticare e portare avanti. E’ fondamentale, ma attenzione alle distorsioni. Questo è il vero pericolo dell’idea in esame.
D: Si è parlato di federazioni vincenti come la FIN ed altre come la FIDAL, quest’ultima tornata a casa con zero medaglie. Come si può contemperare i finanziamenti da destinare, con l’esigenza di ottimizzare i fondi pubblici per le federazioni olimpiche? Bisognerebbe costruire un indice storico di performance, federazione per federazione, puntando sulle realtà più “meritevoli”?
R: E’ cambiata la mappa della società italiana. Le mamme lavorano così come i papà. Chi porta allora i ragazzi giovani ad allenarsi, per esempio, nel dopo scuola, su una pista di atletica, magari anche lontano dal luogo abituale di lavoro? Il problema è sociale, prima ancora che economico. C’è bisogno di un patto sociale con le famiglie, che, però, devono essere aiutate in modo concreto non a parole. La pratica del nuoto, per esempio, ha orari più compatibili per gli schemi lavorativi delle famiglie italiane. Ultima annotazione: il tema del merito. Merito, talento, sacrificio, sono tutti elementi che debbono essere valorizzati, sia a titolo individuale se parliamo di atleti, sia a livello collettivo se si tratta di management federale. Ci mancherebbe il contrario. E’ chiaro che, in tempo di crisi, è strategico ottimizzare al meglio i soldi spesi.
D: Come è cambiato dal 1960 ad oggi la mappa dello sport in Italia?
Nel 1960, ai Giochi estivi di Roma, il nuoto non vinse alcuna medaglia. A distanza di 56 anni la FIN ne ha portate a casa ben 8 e l’atletica zero. Si sono ribaltati i parametri socio-sportivi. Solo la pallanuoto, a Roma ’60, conquistò un oro storico. L’atletica azzurra invece era “regina” anche nel nostro Paese: penso soltanto alle medaglie d’oro (e non solo) nei 200 metri con Livio Berruti (indimenticato campione olimpico, nda) o ancora il triplo, la marcia e il mezzo fondo. Bisogna, comunque, trovare sponsor che possano aiutare maggiormente i progetti olimpici delle federazioni coinvolte, creando, nel contempo, attrazione ed interesse intorno alle nostre discipline. Questo dipenderà anche dalla capacità dei rispettivi management federali. Non ci possono essere importanti risultati sportivi se non investiremo su famiglie, atleti, tecnici ed anche management federali. Perché sono i nostri dirigenti che devono prendere le decisioni importanti, in termini di programmazione olimpica.
D: FIN-FIDAL: una sfida nella sfida del medagliere azzurro?
R: E’ importante fare un’ulteriore riflessione: 8 medaglie dal sistema nuoto per un totale di 47 pass olimpici. L’atletica leggera era presente con 38 azzurri, la scherma, la federazione con il maggior numero di allori olimpici nella storia italiana, ne aveva 17. Alla luce dei risultati la FIN (nuoto, tuffi, pallanuoto, fondo in acque libere e sincro) è la federazione tricolore, che ha dimostrato di aver raggiunto gli obiettivi prefissati in 4 discipline olimpiche su 5 (rimane fuori solo il sincro) e la migliore programmazione olimpica in ambito federale. Lo stesso non si può dire, purtroppo, dell’atletica, regina assoluta dei Giochi in qualsiasi competizione olimpica, ma avara di risultati per la spedizione made in Italy.
D: E’ tempo, quindi, di bilanci e di esami per tutti?
R: Certamente. Ogni federazione, tornata da Rio, così come quelle che non vi sono riuscite ad andare con propri atleti, dovrebbe fare, autonomamente, un serio esame di coscienza e capire da dove ripartire, cercando di non fare gli stessi errori tra 4 anni a Tokyo2020. Su questo il CONI e il capo della programmazione olimpica (Carlo Mornati) dovrà fortemente intervenire e vigilare, perché parliamo di fondi pubblici gestiti da realtà private (le Federazioni sportive). Questo non dobbiamo dimenticarlo mai.
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