Ci siamo giocati il Fair Play Finanziario
Dall’austerity dell’era Platini, al modello attuale finalizzato ad attrarre nuovi investitori.
di Marcel Vulpis* – Il Fair play finanziario è nato, su impulso di Michel Platini (ex numero uno dell’Uefa), per evitare che alle differenze esistenti tra club europei, per giro d’affari, bacini di tifoserie, blasone sportivo e importanza del brand (soprattutto all’estero), non si aggiungessero quelle legate agli interventi scomposti di molti “mecenati” interessati al prodotto calcio per crescere in visibilità e notorietà.
Per otto anni, dal 2009 ad oggi, l’Uefa, passata dalla gestione Platini a quella attuale dello sloveno Aleksander Čeferin, ha cercato di non far riemergere l’annoso problema del gigantismo presente nel mondo del calcio. Con Platini, infatti si è cercato di costruire un tracciato di provvedimenti, più o meno severi, e di imporre una linea di condotta omogenea. L’Uefa, nel disegno originario, aveva individuato ben nove interventi, con diversi gradi di intensità: dal semplice avvertimento scritto (warning), alla lettera ufficiale di richiamo, passando per le multe. Facevano parte, poi, di un secondo livello la decurtazione dei punti (in base alle irregolarità evidenziate dagli ispettori Uefa), le trattenute degli introiti delle competizioni Uefa (collegate alla redistribuzione dei ricavi da diritti tv e commerciali), il divieto di iscrizione di nuovi giocatori e la limitazione del numero dei tesserati che una società poteva iscrivere alle manifestazioni internazionali, compreso un limite finanziario al costo totale aggregato dei “benefit” per i giocatori registrati nella lista “A” degli eventi Uefa per squadre. In caso di gravissime irregolarità era prevista anche la squalifica dalle competizioni in corso o l’esclusione da quelle future, oltre alla revoca del titolo sportivo (per esempio Champions o Europa league) e la restituzione dei premi economici.
La forte crisi economica, che ha colpito indistintamente l’Europa negli ultimi sette anni, ha modificato lo stato dell’arte del settore. Il Fair play finanziario è nato per equilibrare costi e ricavi, puntando al pareggio del bilancio, nell’ottica della sostenibilità economica dell’intero sistema. La contrazione delle entrate di centinaia di club ha portato a situazioni finanziarie, in molti casi, vicine al fallimento o alla necessità di intercettare obbligatoriamente nuove risorse economiche. Ecco perchè l’Uefa ha introdotto prima il settlement agreement (accordo transattivo), che prevede per i club una serie di vincoli, con l’obiettivo di rientrare in parametri economici corretti, e, successivamente, il cosiddetto “welcome package” (pacchetto di benvenuto), ovvero la possibilità, per le realtà coinvolte in nuove acquisizioni (negli ultimi 12 mesi), di poter accedere al “voluntary agreement” (accordo volontario con l’Uefa). Le società, però devono presentare un business plan credibile, con un’approfondita analisi degli investimenti e la previsione puntuale di costi.
Questa opportunità offerta dall’Uefa è strettamente collegata ad un piano di garanzie. L’azionista di riferimento o le realtà “correlate” (investitori di sostegno) devono presentare un impegno considerato irrevocabile a copertura di eventuali perdite negli esercizi precedenti a quello in cui si prevede il raggiungimento del punto di pareggio.
In sintesi, si è passati dall’austerity imposta nei primi anni del progetto FPF (Fair Play Finanziario), all’introduzione di una serie di opportunità per attrarre nuovi imprenditori, salvando, nel contempo, club in forti difficoltà economiche e/o con esposizioni debitorie superiori alla norma. (Inchiesta/CorrieredelloSport)
* direttore agenzia Sporteconomy
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