Davide Astori, l’insostenibile leggerezza del non esserci più
(di Massimiliano Morelli) – “Papà ti devo informare di una cosa, però non ti mettere a piangere…”. La telefonata arriva poco prima del fischio d’inizio di Genoa-Cagliari. Rispondo con un semplice “dimmi”. E lui, diciottenne commosso quanto emozionatissimo, dice con un filo di voce che “è morto Davide Astori”. E’ un cazzotto alla bocca dello stomaco. E’ una notizia che fa male, tanto male. Perché “Asto” il sette gennaio, nel giorno di san Luciano, aveva compiuto trentuno anni e ammettiamolo…era troppo giovane per morire. Al punto che la domanda sorge inevitabile nella mente del cronista come in quella del semplice tifoso, specie quando la morte arriva repentina, veloce e in maniera inattesa perché colpisce chi ha capelli neri e poche primavere sulle spalle: “Che senso ha la vita?”. Poi, in aggiunta, diventa una notizia che fa male, tanto male, perché Davide è stato una bandiera del Cagliari. Si, dovrei scrivere anche che è cresciuto nelle giovanili del Milan e che dopo Cagliari ha indossato le maglie di Fiorentina e Roma…E prima, ragazzino, aveva giocato pure col Pizzighettone, che a volte ti chiedi “ma dove sta ‘sto posto?” e con quella della Cremonese. Si, ci sta tutto, la morte non ha colori, e Davide diventa in un amen, nella prima domenica del dopo-Burian, il ragazzo della porta accanto e nel contempo il calciatore di tutti. A raffica arrivano le notizie, in un nanosecondo si moltiplicano post e cinguettii, e le telefonate dei colleghi che chiedono conferme su quegli anni vissuti nell’isola felice, la Sardegna, con la maglia rossoblu addosso e i colori d’una squadra che l’ha accolto ragazzino e fatto diventare adulto, come uomo e come professionista responsabile, al punto che lo chiamavano il “tedesco”.
Persona per bene, Astori era un centrale di difesa che faceva vagheggiare Gaetano Scirea a chi, nel pieno delle facoltà romantiche d’un calcio ossessionato dagli isterismi, ma senza avventurarsi in paragoni filoeuclidei, vede in Gaetano e Davide uomini educati e seri. Al Sant’Elia è stato allenato da Massimiliano Allegri e nelle centosettantaquattro presenze isolane s’è mostrato in tutte le sue capacità di autentico ministro della Maginot cagliaritana fino ad arrivare alla chiamata in azzurro; è stato compagno di squadra di Daniele Conti, Matri, Acquafresca e Nainggolan, ma anche di Cossu e Canini, e la sfilza dei nomi si perde nelle pagine degli almanacchi del football mentre evito di descriverlo come fan tutti, adesso, leader o capitano. Era un mancino, e quando uno che indossa la maglia del Cagliari gioca con prevalenza col piede sinistro la mente non può che andare al mito dei sardi, Gigi Riva, e poco importa se Rombo di tuono era fromboliere e Davide uno che gli attaccanti doveva cercare di arginarli. Era e non è più. Tanto basta per star male, adesso che tutto diventa effimero, stupido e inutile.
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