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Interviste – Vulpis (Sporteconomy) su CicloWeb

Un uragano ci seppellirà

Impietosa analisi di Marcel Vulpis (direttore agenzia Sporteconomy.it)

La scorsa settimana abbiamo sentito diverse voci del mondo del ciclismo per inquadrare rischi e prospettive in attesa dell’ondata di piena della crisi economica che non tarderà a palesarsi anche alle nostre latitudini. Il quadro uscito da quelle chiacchierate è di un ambiente sì alle prese con un momento difficile, ma non catastrofico. Però la nostra inchiesta va avanti, alla scoperta di scenari più foschi, che probabilmente sono inattesi per quel che riguarda gli effetti che avranno su tutto il movimento. Per la precisione, sono inattesi dall’interno del movimento; per uno sguardo neutrale, dall’esterno, abbiamo intervistato Marcel Vulpis, direttore di SportEconomy.it, agenzia stampa telematica specializzata nei settori di politica, economia e marketing in relazione con lo sport.
Da dove cominciamo? Investire, risparmiare, quale sarà la parola d’ordine nella gestione dello sport nei prossimi mesi?
«Partiamo da un presupposto a livello di macroeconomia: siamo in una fase di mercato fortemente in crisi, e il problema è che non si sa quando e come questa crisi finirà. Non si intravvede la via d’uscita dal tunnel, in pratica. Scendendo invece nel microsistema che ci interessa, noto una certa leggerezza da parte dei management delle società sportive. Forse perché in Italia crediamo che questa crisi sia già in atto e sia in qualche modo gestibile; e invece siamo nella coda del ciclone, e se non stiamo attenti rischiamo di essere spazzati via quando arriverà il grosso della perturbazione. Mettiamoci in testa una cosa: tutto quello che era valido fino a 6 mesi fa, salterà in aria da un momento all’altro, tutte le strutture economiche dovranno essere rimodellate, e qui viene la domanda centrale: abbiamo nelle nostre società sportive dei manager in grado di affrontare una situazione tanto pesante?».
Ce li abbiamo?
«Abbiamo dei manager che sono molto bravi a lavorare coi soldi. Quando invece il denaro non c’è, occorrono dei dirigenti con altre capacità, che siano in grado di gestire dei difficili momenti di trapasso che hanno bisogno di trattamenti differenti. Per fare un esempio, in comunicazione ci sono delle apposite agenzie che intervengono nei casi di crisi (mi vengono in mente Parmalat, o Alitalia), perché in quei momenti cambia anche il tipo di messaggio che va veicolato all’esterno».
E invece nell’ambito strettamente economico e gestionale, par di capire che lei nutra scarsa fiducia per i manager attualmente in sella.
«Se facciamo base 100, io dico che in 90 casi le società sportive sono guidate da persone che non hanno i giusti strumenti professionali per occupare quel ruolo. Tutto è in mano ai team manager, ma un team manager non basta più per far fronte a tutte le problematiche che lo sport moderno comporta. E parlo di tempi normali, quando il manager in questione ha in mano all’inizio della stagione un budget sicuro con cui operare. Figurarsi in tempi di crisi, quali quelli che stiamo iniziando a vivere: bisognerà navigare a vista, cercare di non affondare giorno per giorno, con un approccio a volte anche diametralmente opposto alle tematiche in discussione».
Un approccio opposto in che senso?
«Faccio l’esempio di un proprietario di casa che a un certo punto si rende conto che il suo stabile sta per cedere e va puntellato: interviene tempestivamente e salva la baracca, almeno per il momento; in un periodo come quello che stiamo vivendo, occorre sapere sei mesi prima che in quello stabile ci saranno delle crepe, e lo si può fare monitorando per tempo determinate variabili. E occorre agire d’anticipo perché altrimenti le crepe saranno molto più profonde di come sarebbero state in un momento di mercato florido. Invece vedo che si scelgono ancora soluzioni temporanee, la Lega Volley ha stabilito un taglio degli stipendi del 15%, ma per quanto possa sembrare rivoluzionaria, questa scelta non sarà che un tampone, perché il monte salari negli sport di squadra è cresciuto a dismisura negli ultimi anni, e non sarà un taglio del 15% a normalizzare la situazione».
Che taglio ci vorrà, allora?
«Più che un taglio, occorrerebbe cambiare la natura di questi contratti, che andrebbero legati ai risultati conseguiti più che a un fisso da riconoscere comunque. Tutti i soggetti sportivi devono capire la difficoltà del momento, meglio avere un ingaggio decurtato che nessun ingaggio».
Non so se lo sa, ma nel ciclismo siamo già avanti, visto che sono tanti i corridori che corrono gratis, nel senso che si portano in dote uno sponsor che ne permette l’ingaggio.
«Questa è un’anomalia inconcepibile. Se già il ciclismo ha dovuto ricorrere a questi mezzi in periodi di crescita economica, con la crisi sarà un disastro, e molte società rischieranno il fallimento. Ne parlavo qualche giorno fa col patron di un’importante squadra di volley di A2: "Se non capisco gli sviluppi del mercato nei prossimi 18 mesi, mollo tutto", mi ha detto, non si possono fare programmi a lungo termine e ho paura che non ci sia spazio per tante società professionistiche. Per dire, se nel calcio si facessero due soli gironi di serie C e si snellissero anche la A e la B, avremmo un professionismo che costa meno e che non vive al di sopra delle proprie possibilità. Ecco, la parola chiave sarà "snellire"».
E nel ciclismo gli sponsor stanno già snellendo la loro presenza, tra fughe e disimpegni vari.
«Quali sponsorizzazioni si dovrebbero cercare oggi nel ciclismo? Una società non ha accesso ai diritti televisivi; non partecipa alla suddivisione del montepremi, che viene diviso tra i membri della squadra; non percepisce introiti da vendita di biglietti per le competizioni; non ha una linea di merchandising rilevante, a meno che non abbia un Armstrong in squadra. La mia domanda quindi è: dov’è il business in tutto ciò? È chiaro che la somma di questi addendi è negativa, e sperare di sopravvivere in questo momento puntando solo sulle sponsorizzazioni è ahimè un’utopia».
Praticamente sta decretando la fine del ciclismo di qui a breve…
«Entro nel dettaglio. A parte le 10/15 squadre più forti, quelle del Pro Tour per intenderci, io non vedo una logica imprenditoriale forte dietro le altre sponsorizzazioni. Si entra spesso più per passione del capitano d’azienda che non per una vera e propria strategia, che richiederebbe di soppesare in anticipo spese e possibili ricavi. La passione è una gran cosa, ma non è business. E un appassionato intervenuto nel ciclismo senza un vero e fruttifero piano industriale, sarà il primo a far venire meno il suo impegno nel momento in cui si troverà a non avere più i soldi per il pane. Le sponsorizzazioni – specialmente queste ultime – sono un prodotto per un mercato di lusso, diciamo; in un mercato di crisi come quello che ci aspetta saranno considerate spese superflue di cui fare a meno; e se ne farà a meno».
Questo discorso si riallarga dal ciclismo all’intero sport.
«Ci sono cose che non capisco. Grandi imprenditori entrano nel calcio e vanno in perdita nella gestione delle società sportive, e questa cosa è un po’ sospetta. A meno di non riconoscere che lo sport da un certo punto di vista è una grande lavatrice, e le perdite nel calcio mi permettono di pagare meno tasse con le altre mie aziende, visto che possono essere spalmate tra le varie attività. Ma questo è un discorso valido per i grandi capitalisti, mentre a livello dilettantistico o di sport minori non capisco perché un imprenditore dovrebbe investire per andare in perdita. Devo pensare che sia solo per la sovrafatturazione?».
Ce lo dica lei.
«Prima o poi la Guardia di Finanza entrerà a gamba tesa su questa consuetudine. Un uso, quello di pagare 10 e vedersi fatturato 50 per scaricare più tasse, che va a detrimento di chi lavora seriamente, e che ha azzerato di fatto il marketing in questo settore: che senso ha studiare piani ragionati, basati su idee innovative, se poi ci si va a scontrare con questa realtà? Se poi l’imprenditore di turno ti chiede come prima cosa la sovrafatturazione? Non ci sono le basi per un’attività seria, siamo molto border-line, e se davvero la GdF facesse dei controlli a tappeto, quello stesso giorno chiuderebbero almeno il 30-40% delle società sportive italiane».
Forse è per questo che non si interviene, perché ne deriverebbe il collasso di mezzo sport nazionale.
«E allora visto che lo Stato abdica, che abdichi anche in questo caso? Si tratta di una cosa contro legge o no? Il mercato è libero quando ci sono le stesse condizioni per tutti, cosa che non è visto che chi ragiona secondo legge si trova fuori dal mercato stesso. Un po’ come il doping, no? La verità è che tutti sanno tutto, il team motociclistico della classe 125 sponsorizzato dalla Regione Abruzzo costava (in teoria) quanto quello di Valentino Rossi. Poi la bolla delle cifre gonfiate scoppia e non sappiamo con quali conseguenze. Nel frattempo nessuno fa niente, e si continua a campare alla giornata, invece di fare programmi seri basati su fondamenta solide. Ma è un andazzo che forse finirà prima di quanto pensiamo, insieme ai soldi di chi investe in questo tipo di sponsorizzazioni».
A volte nei momenti di crisi si pongono le basi per il rilancio: in questo caso quali sarebbero le mosse da fare?
«Per un paio d’anni non vedo politiche diverse da quelle del contenimento dei costi. A settembre in tanti capiranno che i soldi son finiti, e lì i nodi verranno al pettine. Bisogna quindi cercare solo di rimanere vivi, poi fra 18 mesi si fa un’analisi della situazione e si decide eventualmente come muoversi. Questo ci ha detto anche il recente Forum Economico Mondiale di Davos. Certo, in tanti non ce la faranno. Melandri nel motociclismo non ha ancora una scuderia per quest’anno, perché la Honda da un momento all’altro si è ritirata e non si trova nessuno disposto a pagare l’ingaggio di un campione affermato. In tanti si fermeranno, purtroppo».
Non solo a livello sportivo, ma anche organizzativo?
«Vedo calendari fittissimi, ci sono tanti eventi che scompariranno, già ora in tanti si chiedono se valga più la pena accollarsi il rischio di organizzare una manifestazione di uno sport che non ha entrate certe. Di sicuro avremo montepremi meno ricchi, l’atleta guadagnerà di meno, ma lo sport non è fatto per arricchire chi lo pratica: si tratta solo di entertainment, e durerà finché si potrà farlo durare. E durerà di più se sarà appetibile, più snello, meno costoso. Se le corse fossero di 100 km anziché di 200, magari sarebbero più facilmente collocabili in televisione, e di sicuro avrebbero meno spese organizzative da sopportare. Non bisogna aver paura di cambiare, di proporre cose nuove. Nello sci si sono inventati lo slalom in parallelo nella Piazza Rossa a Mosca, è necessario sperimentare formule nuove; tanto più in uno sport come il ciclismo, che ha l’immagine devastata a causa del doping».
È necessario cambiare, oppure essere l’NBA…
«No, non possiamo confrontarci coi padri del marketing, con gli americani. L’NBA è un mito, da noi non si sa nemmeno lontanamente cosa voglia dire la loro capacità gestionale, organizzativa, i loro schemi professionali. Sento parlare di nuovi stadi per il calcio, poi vai a guardare e non c’è una società che abbia tra i suoi quadri un manager specializzato nella gestione (odierna) di uno stadio. Dov’è la professionalità? E stiamo parlando della Serie A del calcio, ovvero di quello che dovrebbe essere il fiore all’occhiello dello sport italiano. Figurarsi che scenari si possono trovare altrove».

Marco Grassi

La testata informativa "Cicloweb.it" ha intervistato il direttore dell’agenzia Sporteconomy sul tema della crisi e le sue conseguenze sul mercato del ciclismo.

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