Rassegna stampa – La sintesi della ricerca CENSIS-ACCIARI consulting
Corriere della Sera 27/12/2009 Claudio Colombo ed. NAZIONALE p. 15
E lo sport ritrova i suoi sponsor
Focus Aziende e pubblicità La ricerca Sono stati spesi due miliardi di euro nel settore: «Veicolo straordinario di comunicazione» Il futuro È previsto che ricevano sempre più soldi le discipline connotate per stili di vita e coesione di gruppo, come rugby, vela, golf e basket
Investimenti in aumento rispetto al 2008. Non solo nel calcio I campioni diventano i testimonial preferiti dalla pubblicità
D a Primo Carnera a Francesco Totti, dalle macchine per cucire al telefonino. Ottant’anni di spot per sport, anzi attraverso lo sport, il canale più utilizzato dalla pubblicità. Fenomeno recente, nella sua dimensione globalizzata, ma ben radicato. «È così robusta: solo lei mi sa resistere!» assicurava il gigante di Sequals, testimonial della Necchi all’alba degli anni Trenta. «Ahò, nun me diventà ‘na bbefana» motteggia oggi il capitano della Roma rivolgendosi a Ilary, prima di schizzar via con la slitta piena di carte telefoniche. Cambiata l’Italia, cambiate le strategie aziendali, cambiati i linguaggi, rimane il messaggio: «passa» bene, anzi meglio, se a veicolarlo è un evento sportivo, una disciplina popolare, un campione mondialmente acclamato.
Lo conferma una recente ricerca di Censis Servizi e Acciari Consulting condotta su un panel di 100 imprese medio-grandi: in Italia gli investimenti pubblicitari hanno segnato nel 2009 un calo del 12% rispetto al 2008, ma su cento euro spesi in sponsorizzazioni le aziende ne hanno destinati 52 a quelle sportive (nel 2008 erano 47), 15 all’arte e alla cultura, 14 allo spettacolo, 9 al sociale. In totale, una spesa di 2 miliardi di euro nel segmento sport, a conferma di un mercato che resiste. Come interpretare questo segnale in netta controtendenza? «In tempi di crisi – spiega Alberto Acciari, docente di marketing sportivo alla Cattolica e all’Università Foro Italico – lo sport offre al consumatore un’immagine di fiducia e di rassicurazione». Perché lo sport esprime valori positivi, evoca vitalità, coraggio e forza d’animo. «Lo sport è metalinguaggio, ha passato, presente, futuro, è globale, è quindi un veicolo straordinario di comunicazione – sostiene Roberto Ciampicacigli, direttore di Censis servizi -. Legarsi a uno sport significa legarsi a un fatto emozionale, contaminarsi positivamente con i suoi valori; legarsi a un testimonial significa utilizzare la sua notorietà, la sua forza comunicativa, con tutti i plus (vincente, simpatico, bello) e i minus, come per esempio lo strapotere del testimonial sul prodotto o un calo repentino di popolarità. Sono due strategie molto diverse che dipendono dalle scelte di marketing delle aziende». Per ora vince la seconda: nella scelta del testimonial, il 53% delle imprese punta su un campione dello sport, il 23% su un personaggio di cinema o tv, il 18% su un esponente della cultura. E allora ecco le moderne icone della pubblicità: la barba bianca di babbo Natale-Totti, Valentino Rossi e le fibre ottiche ultraveloci, Cannavaro con il deodorante che si riattiva e via pubblicizzando. «Ed è molto interessante – aggiunge Ciampicacigli anche in chiave futura – il forte ricorso al testimonial sportivo donna, spesso per prodotti di largo consumo ma anche per la comunicazione sociale».
Il rapporto fra sport e pubblicità è solido e antico: nei manuali di marketing la pagina d’onore è riservata al racconto di quel giorno del ’62 in cui il pistard Antonio Maspes, in piena souplesse, venne inquadrato in tv per 26 minuti consecutivi: lui e, naturalmente, il marchio di elettrodomestici stampato sulla maglietta. Fu l’esordio di un teorema che ancora oggi resiste: sport-tv-pubblico-mercato. Non a caso il ciclismo fece la parte del leone negli anni Cinquanta-Sessanta: disciplina itinerante per eccellenza, capace all’epoca di attrarre centinaia di migliaia di appassionati ai bordi delle strade, affidò ai volti più noti (Coppi, Bartali e Fiorenzo Magni) il compito di diffondere, in epoca di boom economico e quindi di crescenti disponibilità finanziarie da parte delle famiglie, le proprietà lenitive di una crema da corpo piuttosto che la terapeutica bontà di un bitter.
Sembra trascorsa qualche era geologica ma in realtà sono passati poco più di trent’anni dalla polemica che investì l’Udinese calcio quando sui pantaloncini dei giocatori il patron del club, Teofilo Sanson, fece applicare il marchio della sua azienda di gelati. C’è chi giudicò il blitz un un affronto alla sacralità del pallone; in realtà aprì la strada alla grande abbuffata che oggi abbiamo sotto gli occhi: le casacche del calcio, un tempo intonse, ora sono francobollate dai marchi; le aziende ingaggiano i campioni a peso d’oro; gli eventi nemmeno si programmano senza le robuste infiltrazioni di denaro degli sponsor. Con il calcio, naturalmente, a farla da padrone. «Il pallone è anticiclico – ha spiegato Marco Brunelli, dg della Lega, in un convegno a Milano – perché rende accessibile il target di consumatori più richiesto dagli inserzionisti (maschi con elevato potere d’acquisto) e sa esaltare la propria esclusiva natura di veicolo promozionale e di comunicazione flessibile e personalizzabile».
Ma il futuro, aggiunge la ricerca Censis-Acciari Consulting, riserverà qualche sorpresa. Il pallone e i suoi testimonial (insieme a Formula 1 e motociclismo: il marketing li identifica come sport di massa) continueranno a farla da padrone in pubblicità e sponsorizzazioni, ma cresceranno nel contempo i cosiddetti sport di «tribù», ossia quelle discipline fortemente connotate per cultura, stili di vita, coesione di gruppo: rugby in prima fila, ma anche vela, golf e basket. Lo sport, penetrato nella vita di tutti i giorni in maniera significativa, e molto più di altre piattaforme sociali, spingerà le aziende a investire verso quelle community sportive che garantiranno un’immagine di lealtà, rispetto delle regole e competizione positiva. Queste discipline tribù intercetteranno nei prossimi anni quote crescenti di sponsorizzazioni (il 48%, dice la ricerca Censis), contro il 41 degli sport di massa, il 7 degli sport di nicchia (tipo snowboard e skate), il 4 di sport tradizionali come pallavolo, tennis e nuoto.
Dalla ricerca emerge però anche un dato preoccupante che riguarda l’impatto della crisi economica sul cosiddetto sport di base, calcolato in un’indagine fra 1.200 società dilettantistiche: tra il 2008 e il 2009, il 61% di esse ha visto diminuire sensibilmente il proprio «giro d’affari», soprattutto per la riduzione delle sponsorizzazioni, che rappresentano circa un terzo degli introiti. A mancare sono stati gli investimenti di quelle piccole e medie imprese abituate a sostenere le associazioni sportive del territorio e oggi alle prese con l’onda lunga della crisi. Per il 2010 le previsioni sono tutt’altro che rosee: il 36% dei gruppi sportivi ha già messo a bilancio una ulteriore riduzione dei finanziamenti provenienti dal mondo della pubblicità. Lo scenario che si apre prospetta una serie di effetti a catena: da una parte maggior ricorso all’autofinanziamento e una riduzione dei rimborsi a tecnici e atleti, dall’altra – ipotesi estrema ma verosimile – una contrazione dell’attività sportiva, fino al rischio di estinzione. Si allargherebbe così la forbice tra sport d’élite e discipline di base. Un dato sul quale istituzioni sportive e sociali dovrebbero riflettere.
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