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Abodi (Lega B) traccia il futuro della sua Lega e del calcio italiano

Qualche giorno fa la redazione di Insideroma.com ha incontrato Andrea Abodi, presidente della Lega Calcio di Serie B (rieletto questo pomeriggio per la terza volta consecutiva dal 2010 ad oggi) e, stando alle voci che hanno cominciato a circolare proprio pochi giorni dopo questa intervista, possibile avversario di Tavecchio alle prossime elezioni per la presidenza della FIGC. Ne è emerso un profilo personale e professionale articolato (a firma del collega Paolo Valenti), che potrebbe costituire una risposta di alto profilo alle esigenze di cambiamento del calcio italiano.

 

Ma in questo mondo si riesce ad andare avanti? Non c’è il rischio di rimanere isolati?
Certo. Noi abbiamo un’agenda quotidiana e una di lungo periodo, che indubbiamente sono condizionate dagli altri attori del grande sistema-non sistema nel quale la Lega di B è un soggetto di transito: dal punto di vista economico, politico e sportivo. In certi frangenti abbiamo la consapevolezza, e anche un po’ la presunzione, di trovarci un po’ soli, con una voglia di cambiare, di collaborare e di migliorare che non avvertiamo sempre in chi ci sta attorno. Ma questo è un problema che forse riguarda il Paese in tutte le sue articolazioni, dalle più banali alle più complesse. In ogni caso io mi ritengo estremamente fortunato. Da quando sono presidente della Lega ho costruito, grazie anche a una squadra di grande valore, un rapporto talmente fiduciario coi nostri azionisti che, come Lega, ci possiamo muovere con una grande libertà di pensiero e di movimento.

Riesce a trovare delle spiegazioni che giustifichino questo contesto?
Sinceramente non saprei. La possibilità di misurarsi con i limiti e i rischi che si hanno davanti e tramutarli in opportunità di miglioramento dà grande soddisfazione e stimoli. Si può anche cadere, certo. Ma proprio quello spirito di cui parlavo prima ti dà la forza di rialzarti e di guadagnare la fiducia di chi poi ti valuta. La fiducia che abbiamo seminato in questi anni è fondamentale per avere opportunità di sviluppo: fiducia e rispetto sono due fattori decisivi che si alimentano tra loro, che ti consentono eventualmente di cadere e poi di rialzarti.

L’ingresso del teatro Bonci di Cesena, sede della presentazione del nuovo campionato di B 2016/17

La Lega B sviluppa molte iniziative legate alla responsabilità sociale. E’ una condotta dettata esclusivamente dal management o si tratta di un laboratorio istituzionalmente deputato a sperimentare case history di successo da esportare anche verso la Serie A?
Il calcio non può prescindere dalla volontà e dalle capacità dei suoi dirigenti. Noi siamo nati sei anni fa dalla separazione dalla serie A: davanti avevamo un libro bianco sul quale scrivere tutto. Avevamo una storia sportiva ma ci mancava un’identità associativa, avevamo la necessità di costruire infrastrutture materiali e immateriali partendo proprio da queste ultime. In quest’ottica la prima iniziativa che pensammo di perseguire fu proprio quella della responsabilità sociale perché eravamo, e siamo sempre più, conviti che il calcio non rimanga per inerzia al centro degli interessi della gente, per una sorta di staffetta generazionale. Già prima di Calciopoli avevo intuito il rischio di un distacco della gente dal calcio a causa dalla mancanza di reputazione e credibilità. Il calcio ha la possibilità di rimanere un grande fenomeno popolare ma deve meritarselo. In questo senso abbiamo ritenuto fondamentale sviluppare iniziative atte a riavvicinare la gente al calcio perché, lo ribadisco, non va dato per scontato che i tifosi vadano allo stadio a vedere la partita.

Verso quali iniziative vi siete orientati?
Per fare un primo esempio, con la piattaforma B Solidale abbiamo creato uno strumento col quale confrontarci col terzo settore e sviluppare iniziative congiunte con alcune selezionate realtà del non profit. Credo che questo tipo di attività siano una sorta di allenamento per le coscienze di calciatori, tecnici e dirigenti, mirate non solo a contrastare gli illeciti ma anche a formare degli uomini, dei cittadini. I progressi ci sono stati: nel 2010 cercavamo riferimenti, oggi lo siamo diventati. Il progetto B Futura, altra piattaforma che abbiamo ideato per sostenere lo sviluppo infrastrutturale, va considerato un vero e proprio defibrillatore di sviluppo territoriale perché attira investimenti e genera opportunità di lavoro: è un progetto che sta già fornendo dei risultati importanti, testimoniati da indicatori oggettivi che sono inequivocabili. Parlo della crescita dei fatturati: quello sportivo, ossia la qualità dei nostri giovani che sistematicamente si affermano in serie A o all’estero, come Verratti; quello di socialità, che si rispecchia anche nella crescita del pubblico negli stadi, che ha superato quello di Francia e Spagna, e in televisione, sfatando quella leggenda metropolitana che vede stadio e tv concorrenti tra loro quando invece possono essere dei formidabili alleati; e quelli finanziari, che per alcuni mi rendo conto che sono la priorità, mentre per noi sono la risultante di quelli precedenti. Noi abbiamo più che triplicato i fatturati televisivi e aumentato la nostra visibilità non solo in Italia ma anche nel mondo, dato che la serie B oggi è vista nei cinque continenti: un risultato impensabile fino a tre anni fa. Sono tutti segnali di una crescita che ha bisogno ancora di tempo per compiersi. Quello che noto, per fortuna, è che c’è un livello di coinvolgimento, una tale inerzia sistematica progressiva, a volte addirittura incalzante, che costringe le società a venirci appresso, a volte senza nemmeno comprendere fino in fondo tutto quello che facciamo.

Il presidente della Lega B, Andrea Abodi

Qual è la mission della serie B nel panorama calcistico italiano?
Direi che prima della mission bisogna avere una vision, perché è la seconda che ispira la prima. La nostra missione è inevitabilmente complementare alla serie A ed è funzionale ai suoi obiettivi. Però non ci siamo mai parlati e non ci siamo mai fissati degli obiettivi di sistema che partissero dalla visione del calcio e entrassero nella dimensione della missione di ogni singolo componente di questo sistema-non sistema, dove oggi ognuno viaggia per conto suo. La crescita del calcio italiano rispetto alle altre grandi nazioni europee risiede proprio nel miglioramento dell’armonia del sistema, che è inevitabilmente un fattore di forza. La vera riforma del calcio italiano non avverrà quando si diminuirà il numero delle squadre professionistiche; il salto di qualità lo faremo quando ciascuno saprà, all’inizio della stagione, quali sono i suoi obiettivi, sui quali verrà misurato a fine anno. Questa impostazione che noi promuoviamo ho la sensazione che crei degli imbarazzi alle altre leghe. E’ una considerazione un po’ amara ma allo stesso tempo molto stimolante perché siamo convinti che con costanza, perseveranza, pazienza e intraprendenza riusciremo a cambiare le cose.

Il calcio professionistico sembra avere difficoltà nel miscelare sapientemente valori sportivi, esigenze del business e passione dei tifosi. Lei come crede che questi aspetti possano convivere al meglio?
Sono tre fattori inscindibili tra loro nel calcio di vertice. Noi non abbiamo ancora trovato la giusta modalità di relazione tra questi tre aspetti, un’equazione che invece negli altri paesi è stata risolta da tempo partendo dalla capacità di ascolto, di dialogo e di collaborazione con il pubblico. Alcuni probabilmente sottovalutano il tema o lo avvertono solo nella sua risultante economica. Parlavo prima delle tre tipologie di fatturato, dove per ottimizzare quello economico non è possibile sottovalutare quello sportivo e sociale. E’ un problema di sensibilità e di superamento di un approccio presuntuoso che a volte il calcio ha coltivato pensando che comunque la gente non ne potesse fare a meno. Ma non è così: il pubblico bisogna meritarselo e bisogna ricordarsi che senza pubblico non c’è il calcio.

La pubblicità in Cina di “Sina Weibo”, piattaforma social

Spostiamo l’attenzione sugli investitori stranieri: li dobbiamo considerare una minaccia o un’opportunità?
Dipende. Pensare di chiudersi in un momento nel quale il sistema economico italiano ha delle oggettive difficoltà vorrebbe dire negarsi delle possibilità. L’importante è non essere usati ma utilizzare l’ingresso di capitali stranieri per far crescere e migliorare, con un processo di contaminazione positiva, un sistema che è sempre stato un po’ bloccato. Vale per la serie A e la serie B indistintamente. E noi come Lega possiamo avere un ruolo di garanzia e trasparenza per selezionare gli investitori e definire le procedure di acquisizione. Un po’ come abbiamo fatto nella recente vicenda che ha visto il cambio di proprietà del Pisa. Non dimentichiamoci che acquisire una società italiana, proprio per i motivi di inadeguatezza che oggi ci contraddistinguono, offre delle possibilità di crescita che dal punto di vista economico possono rendere più attraente un investimento qui da noi piuttosto che in campionati dove il sistema ha raggiunto un livello di maturità superiore.

Come vede l’impatto degli investitori stranieri sul nostro calcio? Loro hanno ricchezza economica ma non conoscono le nostre tradizioni, la nostra mentalità, la storia delle squadre che vanno a gestire.
Innanzitutto va chiarito un aspetto: una cosa è la proprietà, un’altra il management. Ci sono dirigenti italiani di valore che rappresentano un primo livello di garanzia. E poi ritengo che qualsiasi investitore internazionale non possa non tener conto del contesto in cui va a investire. L’imprinting del calcio italiano è talmente forte che è impensabile che chiunque venga qui possa stravolgere la nostra cultura calcistica. Gli investitori stranieri possono dare invece molto più di quanto hanno dato fino ad oggi in termini di cultura d’impresa, soprattutto se arrivano da altri continenti. Io credo che prima di vincere sul campo questi investitori siano interessati a costruire le aziende, cosa che nel calcio italiano non sempre è successa. Prova ne sia la disarticolazione dei conti economici delle nostre società, assolutamente baricentrici verso le voci relative al costo della forza lavoro sportiva, i giocatori, rispetto a quelle per infrastrutture, settori giovanili e le altre attività di contorno. Sicuramente gli investitori internazionali sanno costruire aziende più equilibrate.

Facciamo un’escursione nel mondo delle nazionali. L’allargamento dei Mondiali a quarantotto squadre risponde più all’esigenza di aumento dei fatturati o è una formula voluta di democrazia partecipativa?
Io non credo che sia un problema di incremento dei fatturati. Il calcio ha una sua universalità e penso che l’allargamento da trentadue a quarantotto squadre sia sostenuto soprattutto da questo valore. Del resto risponde alla via che Infantino ha sempre indicato, ossia la necessità di allargare il più possibile la partecipazione. La Fifa si rende conto dei rischi che porta un concetto sempre più elitario del calcio, che non necessariamente lo rende più sano e può indirizzarlo, ad esempio, all’ipotesi delle superleghe continentali. Dare la possibilità di partecipare ai Mondiali anche a nazioni che sanno di non poter arrivare in fondo alla competizione rende il calcio più universale e lo protegge dal rischio di diventare troppo selettivo, diventando intrattenimento allo stato puro, perdendo la sua dimensione sportiva e la sua semplicità. Capisco, del resto, anche le perplessità di Rummenigge: i più forti vogliono confrontarsi tra loro. Ma il calcio non è questo. In futuro potrà anche cambiare ma allora sarà qualcosa di diverso: entertainment allo stato puro che incidentalmente avrà dei risvolti sportivi.

Nel 2022 ci saranno i Mondiali in Qatar; poi, molto probabilmente, nel 2026 toccherà agli Stati Uniti e nel 2030 alla Cina. Rispetto alla situazione di politica internazionale che stiamo vivendo oggi, lei pensa che il calcio possa essere quel linguaggio comune che aiuta a facilitare il dialogo tra Stati in un periodo storico che sembra tendere più ad alzare i muri che a costruire ponti?
Il calcio dovrebbe svolgere questa funzione, nasce con questo presupposto. E’ vero, però, che più si sale e più c’è lo scontro di potere tra i poteri. E’ del tutto evidente quanto sia diventata pressante la strategia della Cina, che ha battezzato l’intrattenimento in generale come fattore di occupazione del tempo e di controllo delle masse e ha dato il mandato politico ai suoi grandi gruppi di investitori di andare all’estero per conquistare territori. E’ stato fatto nel mondo del cinema e poi in quello del calcio, con l’acquisizione di Infront e di quote di partecipazione nelle società calcistiche. Quindi è vero che il nostro sport abbatte le barriere e costruisce ponti ed è bene che venga utilizzato in questi termini, come una sorta di ammortizzatore sociale globale. Però è del tutto evidente che c’è uno scontro di potere fortissimo a livello internazionale. Prova ne sia quanto è successo con l’intervento dell’FBI nelle questioni della Fifa. Esistono fattori di geopolitica anche a livello sportivo che rappresentano nuove forme di conflitto e di controllo del mondo. (fonte: Insideroma.com)

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