Cagliari, viaggio nel passato d’un football sincero
(di Massimiliano Morelli) – Quarantasei anni sono un’eternità, una vita. Ma anche un soffio lieve, quando ti guardi indietro per scrutare il passato. Quarantasei anni fa, era il 12 aprile del 1970, il Cagliari conquistò il suo primo e fin qui unico scudetto, ammesso e non concesso che gli dei un domani possano ingegnarsi per replicare quel sogno.
Perché quello si, era un sogno vero, un viaggio onirico per la gente isolana, spesso dimenticata dal potere centrale dello Stato, perché l’isola è dall’altra parte del mare, e allora che torni utile per una vacanza estiva, per una villa in Costa Smeralda, per un abuso edilizio o qualcosa di simile. Invece no, l’isola felice che tornava utile anche a qualche burocrate sfigato per punire e spedire chi cercava di intralciare il suo cammino o a volte l’infedele di turno a svernare, quel giorno divenne qualcosa di più di una terra dalle mille lingue e dalle usanze storiche, incastonata nel bel mezzo del Mediterraneo, quasi un crocevia fra Spagna e Italia, Africa e Francia. Quel giorno la gente dell’isola felice scese in piazza per festeggiare uno scudetto unico nel suo genere, un trionfo capace di spezzare l’egemonia nordista del nostro football, una rottura di schemi senza eguali in un Paese compassato, avvinghiato ai compromessi, alla cultura del “volemose bene senza fasse male”. All’ideologia del “quello che è mio è mio e quello che è tuo è mio”. L’Italia del calcio fece l’inchino quel giorno ai piedi di Gigi Riva e dei suoi scudieri, cercando di carpire il segreto d’un trionfo dettato dal cuore, dalla voglia di emergere, dal desiderio di alzare una mano per dire “ci siamo anche noi!”.
L’Italia, quel giorno, capì mille altre cose. Capì che per un latitante come Graziano Mesina la partita della squadra del cuore era più importante del rischio d’essere riconosciuto sugli spalti e arrestato. Capì, soprattutto, che si poteva conquistare un traguardo senza porre limiti alla provvidenza. E Cagliari e l’isola che la circonda diventarono per un giorno l’ombelico del mondo, con una favola vera che ancora oggi viene ricordata quasi fosse accaduto ieri. Perché quello scudetto, costruito in pochi anni, stravolse i canoni d’un sistema inquadrato, figlio d’un Paese che stava scollinando, dopo l’era del boom economico, prima di tracimare nell’austerità di riscaldamenti spenti e domeniche senza auto, miniassegni invece degli spicci e patti di non belligeranza fra i partiti. Quel Tricolore, che ancora sventola da qualche parte nell’entroterra sardo, ormai ingiallito ma comunque vero, fu gloria reale. Senza padroni né sponsor, con un filosofo in panchina e il libero che si ruppe un ginocchio, il mediano spostato libero, lo stopper che faceva gli autogol e una coppia di terzini vecchio stampo, un portiere sindacalista e gli scarti dell’Inter, una mezzala che di nome faceva Ricciotti. E con Gigi Riva, uno che avrebbe potuto vendere l’anima a chiunque per comprarsi la Sardegna intera, e che invece ha vissuto la sua esistenza di uomo normale.
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