“Calcio italiano: il business c’è, forse, ma non si vede…”
Poche settimane fa Adriano Galliani, nelle vesti di a.d. dell’A.c. Milan, in un’intervista a Villasimius (durante il tradizionale workshop di fine stagione) con alcune tra le più importanti testate economiche, ha spiegato la sua visione del calcio e, soprattutto, quali sono i mali di questo settore. C’è un problema di competitività, ha spiegato il numero uno rossonero, nei confronti dei competitor europei (i grandi club inglesi, spagnoli, tedeschi, ecc.) per una serie di fattori tutti ugualmente importanti. La lingua, per esempio, vale a dire che l’italiano non è l’idioma più diffuso nel mondo (a differenza dell’inglese e, ci permettiamo di aggiungere, anche lo spagnolo). Ma altrettanto importante è la presenza delle più importanti multinazionali in Inghilterra, piuttosto che in Germania. L’Italia da tempo è una “colonia” anche se molti continuano a non accorgersene. E poi ci sono “i lacci e i lacciuoli”, cioè tutte quelle normative, quei regolamenti, quei vincoli (spesso “ambientali”) che non permettono il pur minimo movimento. Ecco perchè alla fine dell’anno la stragrande maggioranza dei club è in passivo, mentre all’estero c’è più di una realtà che, invece, sorride (pur in una fase di stagnazione economica).A questo aggiungerei anche il “balletto” della valorizzazione dei vivai giovanili (sbandierato sulla carta, ma applicato in tribuna o, se dice bene, in panchina), a fronte di colpi, comunque, a nove zeri prima dell’inizio della nuova stagione. Per non parlare del monte-salari dei giocatori, che non merita ulteriori commenti negativi.Galliani ha sicuramente ragione. Lavorare in Italia è diventato un’impresa ardua e lo Stato ci mette il suo bel carico fiscale/tributario. Pur tuttavia c’è da chiedersi perchè questi presidenti di club sono degli ottimi amministratori nella vita di tutti i giorni, mentre quando varcano la soglia dei football club non riescono più a riprodurre questi circoli virtuosi a livello economico-industriale. Eppure i “lacci e i lacciuoli” esistono anche nei loro business privati. Non saranno tanti quanto nel calcio, ma sicuramente sono ben presenti.Un dubbio risulta legittimo: quale imprenditore vedendo che la propria ditta non produce utili continuerebbe ad investirvi. La risposta è: nessuno. E anche se esistesse questo “Candide” dell’industria italiana prima o poi fallirebbe.Nel calcio, invece, a colpi di iniezioni di denaro e di aumenti di capitale si continua a far galleggiare l’intero sistema.Sarebbe bello, oltre che interessante, che un “Punto a Capo” o un “Ballarò” (entrambe trasmissioni di approfondimento della tv pubblica) ci spiegassero nei prossimi mesi questa alchimia. Perchè una cosa è certa, se esiste una profittabilità nel calcio non c’è ancora qualcuno che l’ha vista passare di fronte a sè. Alla fine dell’anno, forse qualcuno se lo è dimenticato, il dare dovrebbe pareggiare con l’avere. Ai lettori il commento finale di questo editoriale.
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