Calcio: Miserie e incompetenze…
(di Marcel Vulpis – oggi fondo sul quotidiano politico L’Unità) – Dopo il calcioscommesse, i fallimenti dei club (come nel caso del Parma, da questa stagione in serie “D”) e l’esplosione in campo del recente fenomeno delle offese razziste, incluse quelle di stampo omofobo, è il turno dell’evasione, aggravata dall’ipotesi di falsa fatturazione.
Il calcio italiano non smette mai di stupirci. Periodicamente implode, per poi riaffiorare in superficie, giocando sulla scarsa memoria dei tifosi e delle istituzioni, abituate, queste ultime, più a nascondere la polvere sotto il tappeto, che a spazzare lo sporco una volta per tutte. Se fossero confermate tutte le accuse della procura di Napoli, ci sarebbe infatti poco da meravigliarsi. L’Italia è da tempo la “regina” dell’evasione Iva. Già nel 2013, i dati della commissione Ue parlavano della perdita di un terzo del gettito: oltre 47 miliardi di euro.
Il calcio, distintosi negli ultimi anni per altri vizi (più o meno gravi), difficilmente poteva rimanere immune dalla piaga dell’evasione. Sempre che sia questa, poi, la ragione reale della ipotesi di reato ravvisata dalla Guardia di Finanza. Perché a leggere i bilanci in “rosso” dei club professionistici (ben 14 su 20 nella scorsa stagione), solo con alchimie contabili e con strumenti di finanza creativa è possibile cercare di non sprofondare nel baratro del default.
Manca liquidità nel sistema: i costi da tempo superano i ricavi (troppo elevati i salari dei calciatori, nonostante le dichiarazioni di austerity) e questo sbilancio viene attenuato solo con il fenomeno, troppe volte abusato, delle plusvalenze.
Il calcio italiano è appiattito, da tempo, sull’area dei ricavi da diritti audiovisivi. E’ l’unica voce (per fortuna) in crescita: oltre 1,1 miliardi di euro. Può crescere sui mercati esteri, ma il comparto domestico è saturo. Oltre non si può andare, almeno finchè sarà questa l’immagine globale del pallone tricolore.
Per il resto meglio stendere un velo pietoso: stadi da terzo mondo (uniche eccezioni Juventus, Sassuolo e Udinese), tifoserie sempre meno presenti nelle curve, scarsa attrattività media a livello commerciale, difficoltà nel radicarsi in ambito internazionale, investimenti sui vivai sempre più asfittici, tanto da renderli invisibili come voce in molti bilanci. Soprattutto, non c’è la volontà di cambiare: meglio fare “cartelli” con i procuratori, strapagando calciatori dai nomi esotici (per poi rivenderli entro pochi mesi all’estero) più presenti negli atelier di moda che sul rettangolo di gioco. Nel frattempo, la Premier league inglese continua a schiaffeggiarci moralmente: secondo l’ultima indagine Deloitte i 20 club della prima divisione sono nella top 40 della Football Money league. Praticamente non è possibile competere come sistema, ad eccezione della Juventus, decima nel report 2015. Troppo poco per sognare un nuovo rinascimento italiano.
* direttore agenzia Sporteconomy
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