Con Paolo Rossi eravamo giovani. Campioni eroici al Mondiale di Spagna ’82!
(Massimiliano Morelli) – Eravamo reduci dal calcioscommesse. Eravamo sbandati, delusi dal dio pallone, per la prima volta avevamo capito che c’era qualcosa di marcio. Eravamo stanchi del football, addirittura qualcuno azzardò l’ipotesi di non partecipare al campionato del mondo di calcio ormai alle viste. Avevamo vergogna di noi stessi perché quel pane quotidiano che masticavamo era diventato improvvisamente duro. Invece andammo in Spagna, due anni dopo quel maledetto 1980 incorniciato dalle macchine della polizia allocate a bordo campo, pronte a far salire non quelli della Banda della Magliana, ma calciatori più o meno noti. Scommesse, processo, accuse e squalifiche.
L’Italia andò comunque nella terra dei toreri, la qualificazione l’aveva ottenuta sul campo, ma c’era la netta convinzione che si sarebbe usciti al primo turno. L’Italia era un toro anziano, sbilenco e spaesato, imbolsito, l’avrebbero infilzata con la stessa facilità con cui una pubblicità dell’epoca dimostrava che il tonno sarebbe stato tagliato da un grissino. Enzo Bearzot preferì Paolo Rossi (venuto a mancare nelle ultime ore), che da poco aveva terminato la squalifica, a Roberto Pruzzo, bomber di razza nato a Crocefieschi e “made in Roma”. E come ventiduesimo s’era portato Franco Selvaggi, attaccante del Cagliari, con buona pace di una piazza giallorossa pronta a chiedere la testa del “vecio”.
L’Italia passa il turno con tre pareggi, fra questo quello con l’incornata di Graziani che beffa il camerunense N’Kono e il sinistro di Bruno Conti che pareggia il dibattito con i peruviani. A seguire gli azzurri trovano il gironcino a tre, antagonisti Argentina e Brasile. “Ci faranno a fette” è il più edulcorato dei commenti all’indirizzo della squadra, mentre qualche cronista insinua un “pasticciaccio” brutto col Camerun, di quelli che oggi vengono chiamati “biscotti”, oltre a un idillio fra Paolo Rossi e Antonio Cabrini, che dormono nella stessa stanza. Pettegolezzi alla vigilia della sfida con la Albiceleste che fanno male e inducono gli azzurri a osservare il silenzio stampa. Parla solo Dino Zoff, uomo di poche parole, per cui i rapporti fra stampa e squadra sono ridotti al lumicino.
L’Italia batte Maradona e soci in maniera inaspettata ma si parla di fortuna, di Gentile che s’incolla sul “Pibe de oro” e di giornata storta dei sudamericani. Ma quando Paolo Rossi risorge e cala il tris al Brasile, si ricomincia a sognare. Rossi diventa Pablito, si sblocca, e apre le danze contro la Polonia in una semifinale cui Boniek manca come il pane ai polacchi, che cedono pure loro, 2-0, con le ispirazioni di Bruno Conti e il “butta la palla dentro” di Rossi. Si torna a disputare una finale mondiale quarantadue anni dopo la conquista della Rimet parigina, calcio anteguerra, Pozzo, Meazza, Piola e via andare. Si torna a essere competitivi quattordici anni dopo l’Europeo vinto a Roma, altro 2-0 con reti di Gigi Riva e Pietro Anastasi alla Jugoslavia.
A Madrid, santuario del football, mentre Cabrini fallisce un calcio di rigore malediciamo l’assenza dell’acciaccato Antognoni, che salta la finale; e raddoppiamo le dannazioni quando s’infortuna Francesco Zurulittu Graziani, spalla infortunata e Alessandro Altobelli a sostituirlo. Pare sfida segnata contro i panzer, va tutto storto, e poi quelli hanno il dente avvelenato con noi dal 4-3 dell’Azteca di dodici anni prima. Invece nella ripresa ai minuti 12, 24 e 36 l’Italia infila tre volte la porta dei tedeschi, il gol della bandiera di compagno-Breitner neanche scalfisce gli azzurri, e mentre quel presidente partigiano di Sandro Pertini gongola vicino al re Juan Carlos, l’Italia si laurea campione del mondo.
Roba da non crederci, per una rinascita tanto imprevista, quanto comunque meritata. Così si ricomincia a vivere di pane e pallone. E sul carro dei vincitori salgono pure i detrattori, quelli che avevano insinuato il dubbio su Italia-Camerun. E pure quelli che avevano ironizzato sulla stanza d’albergo del Bell’Antonio e di Pablito.
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