Eventi – La relazione del presidente Claudio Barbaro all’Ass.Nazionale di Montesilvano

Latina, Roma, Rimini, Trevi, Viterbo e ancora Roma. Infine  Montesilvano.

Manca poco più di un anno e festeggeremo insieme il ventennale di Alleanza
Sportiva Italiana: vent’anni di storia, di passione e di impegno vissuti
intensamente. Momenti difficili, come quelli iniziali, quando tutto andava
conquistato con la tenacia e l’intraprendenza di chi sa di meritare un posto
nel panorama sportivo. Quando non potevamo fare ciò che volevamo, perché le
risorse erano insufficienti. Eppure non ci siamo arresi: abbiamo proseguito con
entusiasmo e determinazione, consapevoli del valore del nostro progetto e

della necessità di non lasciarci distrarre dagli ostacoli sul
cammino. Sottomessi alla nostra rigida determinazione, quegli stessi ostacoli
sono stati superati e hanno forgiato il nostro carattere e il nostro modo di
affrontare le situazioni. “Per aspera ad
astra”
: attraverso le difficoltà alle stelle. E le stelle sono il nostro
fine terreno. Oggi possiamo concederci la libertà di esplorare il nostro
percorso e il lusso di congratularci con noi stessi per tutto quello che siamo
riusciti a fare. Tanto, ma non tutto. E proprio per questo da qui dobbiamo partire
o ripartire, forti del passato, fieri del presente e fiduciosi verso il futuro.

Una premessa è però doverosa. Alleanza Sportiva Italiana per me è qualcosa
di più di un semplice Ente che ho contribuito a far nascere e crescere: è una
famiglia. E, come sapranno molti di voi, questa richiede una dedizione costante
e meticolosa, vista la complessità delle sue dinamiche e i condizionamenti cui continuamente
è sottoposta. Quella che sento e credo di averle dedicato in questi lunghi
anni. Perché, per quanto solida e unita possa essere, la famiglia non è un ente
astratto, ma è una componente della società che contribuisce a determinarne la
qualità complessiva. Risente non solo delle sue dinamiche interne, ma anche di
quanto accade fuori, e allo stesso tempo lo condiziona. Se è vero questo, cioè
che l’esterno può influenzare una comunità, solo l’esistenza di un legame forte
e solido tra i suoi componenti è in grado di evitarne la disgregazione,
permettendo loro di marciare uniti nel presente, in direzione futuro.

Il senso di appartenenza, la comune passione per l’attività
sportiva, il desiderio di contribuire ad una rivoluzione culturale in cui lo
sport fosse strumento per la ricostruzione del tessuto sociale e parte di un
nuovo modo di vivere la vita, il rispetto per i ruoli e la lealtà verso gli
amici: questo è ciò che ci ha uniti e ci fa essere qui insieme, a dispetto di ciò
che avrebbe potuto dividerci e deviarci dal nostro obiettivo.

Per questo voglio esprimervi sin da ora la mia sincera
gratitudine. Grazie per la passione, l’impegno e la pazienza che avete messo a
disposizione della nostra comunità; grazie per non aver mai smesso di credere a
ciò per cui un tempo sceglieste Alleanza Sportiva Italiana; grazie per aver
contribuito anche con i vostri dubbi e le vostre critiche a far crescere un
gruppo che oggi è più consapevole, responsabile e coraggioso.

Abbiamo, infatti, avuto il coraggio di non calpestare solo terreni
stabili; ci siamo incamminati su sentieri sconosciuti, perché credevamo che la
partecipazione, la nostra stella cometa, ci avrebbe poi ripagato di ogni
sforzo. Ed è stato per consolidare la nostra idea di partecipazione che abbiamo
scelto di ampliare il nostro raggio di azione.

La diversificazione della domanda di sport e la sua destrutturazione
ci hanno convinto dell’opportunità di lavorare per una rinnovata proposta destinata
ad un pubblico più vasto ed esigente. C’hanno portati a promuovere nel nostro
ambito di azione un modello di equilibrata integrazione tra la componente competitiva
(nel solco della nostra tradizione) e quella non competitiva (o amatoriale che
dir si voglia).

La risposta esterna è stata positiva, come testimoniano i numeri
crescenti: al 30 settembre 2009 sono 3.259 le società iscritte al registro CONI
(ad oggi siamo vicini a quota 4.000), 9.258 le società affiliate e circa 721.900
i tesserati. La qualità della proposta è migliorata e la capacità del nostro
Ente di incidere sulla realtà sportiva del Paese è cresciuta, come dimostra la
presenza di nostri rappresentanti nelle istituzioni sportive di maggiore
rilievo, nei posti di rappresentanza degli Enti Locali; come testimoniano le
leggi regionali sullo sport approvate (come quella calabrese), nonché la mia
elezione alla Camera dei Deputati.

D’altra parte, l’emergere di nuovi bisogni sociali – innescati dalla
progressiva riduzione dell’investimento pubblico nel settore del welfare – ci ha
persuasi della presenza di uno spazio da presidiare e dell’idoneità del nostro
Ente a farlo, vista l’ispirazione comunitarista e solidale attorno alla quale
ci siamo formati.

A tal proposito, vorrei salutare assieme a voi Pino Rauti,
scomparso lo scorso 2 novembre; è stato uno dei più autorevoli rappresentanti
della destra italiana e il punto di riferimento politico-culturale per quelli
che mi piace definire spiriti liberi, persone indifferenti e insofferenti a
schemi di per se’ privi di significato.

Pino ha avuto il merito di affermare un principio a noi caro:
l’importanza del senso di appartenenza ad una comunità, vista non solo come
gruppo unito da una stessa storia, lingua e tradizione, ma soprattutto come
comunione di uomini e donne impegnati nella difesa di un interesse più ampio, capace
di trascendere quello individuale. A lui va il mio personale ringraziamento.  

Ed è proprio grazie alla nostra tradizione solidale che siamo
arrivati a porci come referenti non solo dell’associazionismo sportivo, cuore
originario della nostra azione, ma anche del mondo del Terzo Settore nel suo
complesso. Promozione sociale, turismo sociale, formazione e consulenza fiscale
per associazioni: sono questi i nuovi territori con il tempo divenuti
familiari, aree in cui ASI opera con successo.

Confinarci a rappresentare – seppur in ottica di eccellenza –
l’associazionismo sportivo, avrebbe significato rinunciare ad avere un ruolo decisivo
nello scenario presente e futuro, dal momento che il Terzo Settore – come
riconosciuto da più parti – costituirà la risorsa per la “rinascita” del nostro
Paese, in un momento storico caratterizzato da una marcata debolezza dello
Stato e del sistema politico, nonché dall’emergere di nuove forme di
partecipazione al di là e al di fuori dei canali tradizionali.

Questo è quello che emerge dalle analisi sociologiche, dagli
interventi di alcuni esponenti politici ed anche da uno studio oggettivo dei
dati. L’Istat, ad esempio, ha stimato in 67 miliardi di euro (pari al 4,3% di
Pil) l’apporto della cosiddetta Terza Dimensione, in aumento rispetto al 2001, quando
rappresentava il 3,3 % Pil; 235.000 sono le organizzazioni non profit, 488.000
i lavoratori e 4.000.000 i volontari. Una realtà che impegna un gran numero di
persone e incide in modo significativo sull’economia italiana, soprattutto considerando
che alcune realtà della società organizzata offrono servizi che lo Stato non
riesce a garantire, dispensandolo in tutto o in parte dal farlo, con un
notevole risparmio in termini di spesa sociale.

Un altro elemento rilevante per capire come il Terzo Settore debba
costituire ancora di più la nostra “frontiera occidentale” è rappresentato
dallo studio dell’Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei
lavoratori (Isfol), intitolato “Il 5X1000 come strumento di partecipazione
nel nuovo modello di welfare”. Qui si evince che questa misura di
sussidiarietà fiscale solo nel 2008 ha permesso di raccogliere quasi 400
milioni di euro (di cui più di 265 milioni per la categoria delle onlus e del
volontariato) ed è stata utilizzata consapevolmente da due gruppi molto
omogenei al proprio interno: pensionati urbani a reddito medio-basso e occupati
di classe media residenti in provincia. Sono state persone con uno status
sociale ‘ordinario’ a scegliere questo mezzo per ‘premiare’ le realtà meglio conosciute,
con cui condividono valori e a cui sono legate da un rapporto di fiducia. D’altra
parte, chi meglio di coloro che operano tra lo Stato e il mercato, spinti da spirito
di servizio ed estranei a quella mentalità assistenzialista che ha inquinato il
pubblico e sottodimensionato il nostro tessuto industriale, può rispondere alle
nuove istanze sociali?

Per questo dico che Alleanza Sportiva Italiana, come parte integrante
della società e come Ente che si occupa di sport, di cultura e società deve continuare
ad avere un peso nel panorama associazionistico e aspirare a partecipare con un
ruolo di primo piano alla nuova fase della storia del Paese.

Una storia giunta ad un giro di boa, attraversata pericolosamente
da pulsioni distruttive che rischiano di essere lasciate agire indisturbate, in
assenza del coraggio della responsabilità.

Ecco, credo che non possa essere e non debba essere l’antipolitica
con il suo potere distruttivo e la sua debolezza propositiva a innescare il
cambiamento. Perché per quanto possa essere liberatorio – ed a volte legittimo
– il vaffa gridato come un rasserenante mantra tra i cittadini moderatamente arrabbiati,
solo l’impegno fattivo della società organizzata potrà determinare un nuovo
inizio di qualità. Non servirà, infatti, ricordare quante aspettative e quanto
desiderio di rigenerazione si nascondeva dietro a Tangentopoli, e quanta
delusione è derivata dalla recente scoperta di un quadro politico non troppo
diverso dal passato. Una classe dirigente bulimica e arraffona, smaniosa di
successi personali e di eccessi materiali aveva sostituito gli uomini e le
donne di apparato della Prima Repubblica.

Per questo penso non ci resti che continuare a percorrere quella
strada imboccata molti anni fa; oggi con maggiore convinzione di ieri. Ce lo
suggerisce il contesto e ce lo raccomanda lo sguardo lungo con cui abbiamo
imparato a guardare la vita.

Nuovi traguardi implicano duttilità mentale e formale.

Da questo punto di vista anche la riorganizzazione dell’Ente – già
avviata – dovrà essere perfezionata e sancita attraverso adeguamenti di natura
statutaria.

Fino ad oggi abbiamo modificato l’assetto interno per migliorare
l’efficienza e il dinamismo della periferia e introdurre un principio di sana
competizione territoriale – non certamente estraneo a noi uomini di sport -, alternativo
a quei meccanismi ereditati dal passato, che non agevolavano la crescita
dell’Ente. Abbiamo adottato nuove forme di affiliazione per stimolare i referenti
locali e per fare proselitismo, diffondendo la visione politico-sportiva dell’ASI.
Abbiamo avviato un processo di informatizzazione che, per quanto abbia creato
ad alcuni difficoltà, generando polemiche spesso legate alla debole confidenza
con i nuovi strumenti di comunicazione, si è rivelato funzionale ad una
necessaria modernizzazione dell’Ente.

L’informatizzazione si è tradotta anche in un progetto di
marketing globale: non solo il restyling del logo, ma anche la creazione di un
nuovo sito con contenuti multimediali capaci di descrivere le nostre attività
centrali e locali e di veicolarle all’interno del nostro mondo e all’esterno. Infine,
la revisione grafica e di contenuto di Primato, il nostro house organ,
disponibile non sono in versione di cartacea, ma anche in digitale sul nostro
sito.

Si conferma anche la qualità degli eventi promossi al livello
centrale, grazie ad una maggiore professionalizzazione. Penso a SportLab,
laboratorio di cultura politico-sportiva a cui hanno partecipato grandi
campioni e dirigenti sportivi, divenuto un significativo appuntamento per i più
importanti esponenti di settore, nonché occasione per nuove sintesi. Penso alla
giornata dell’Etica nello sport e a tutte gli eventi sulla stessa falsariga di
cui siamo stati promotori per celebrare e consacrare quel connubio tra etica e
sport, fondamentale per chi crede che quest’ultimo sia naturalmente portatore e
produttore di valori.

Mi vengono in mente i campionati nazionali di calcio e quelli di
sci organizzati dal settore sport invernali, e il Premio Sport & Cultura
(conosciuto anche come “Gli Oscar dello sport Italiano”), importante manifestazione
organizzata su impronta dello storico Premio Vianello per premiare chi tra
aziende, Istituzioni locali, associazioni o singoli si è distinto nel proprio
ambito di competenza per diffondere la pratica sportiva e promuovere una
cultura di cui lo sport sia parte integrata e legittima. E non cito
singolarmente tutte quelle manifestazioni locali che hanno animato in questi
anni il tessuto sociale, non perché non le ritenga importanti (tutt’altro!), ma
per non rischiare di dimenticarne qualcuna.

Come dicevo all’inizio, queste trasformazioni sono importanti, ma
sono una prima parte di un processo di revisione formale a cui dobbiamo
sottoporci per continuare ad essere competitivi. Dovremo modificare  il nome dell’Ente per ricomprendere in
questo le nuove competenze, ma dovremo anche dare una prima codificazione delle
aree extrasportive, liberalizzare ulteriormente le affiliazioni e i
tesseramenti (senza dimenticare la tutela di chi ha ben operato), procedere ad
una razionalizzazione dei settori per evitare che vi siano duplicazioni e che,
invece, si rafforzi l’autorevolezza e la competenza di quelli esistenti. Anche
l’istituzione di Assemblee Nazionali di secondo grado (ordinaria e
straordinaria) dovrebbe essere prevista come mezzo per accrescere la
partecipazione alla vita dell’Ente e aumentare il dibattito e la consapevolezza
interna. Un primo passo è già stato fatto con il trasferimento della sede
nazionale: un luogo più grande e accogliente con un’ampia sala riunioni che
ospiterà i nostri incontri e sarà a nostra e a vostra disposizione per
consentire un maggiore collegamento tra la periferia e il centro.

Ma il cammino è ancora lungo se vogliamo che ASI mantenga un ruolo
di primo piano all’interno del nostro sistema sportivo. Un sistema che – e qui
vengo ad un punto che mi sta molto a cuore – non è certamente immune da difetti.
Troppo spesso lo si è erroneamente rappresentato come un’isola felice, un faro
a cui gli altri Paesi avrebbero dovuto guardare, sebbene immobile in uno
scenario in continua evoluzione.

E questo a dispetto di fatti che hanno dimostrato con drammatica
evidenza una serie di falle. Solo per citarne alcuni più recenti: le inchieste
di Calciopoli; i giocatori di una squadra di calcio tenuti in ostaggio da
tifosi non soddisfatti dei risultati raggiunti; il doping di Alex Schwarzer
alle Olimpiadi di Londra. Un ambiente in cui si verificano cose simili non può essere
considerato una sorta di Eldorado; né è possibile – come abbiamo sempre detto –
trincerarsi dietro lo scintillare delle medaglie, dietro i successi delle
grandi competizioni per distogliere lo sguardo da problemi evidenti. Certamente
il ricco medagliere olimpico londinese (al di sopra delle aspettative iniziali)
ci inorgoglisce come italiani, come uomini e donne di sport, ma non può impedirci
la messa a fuoco della situazione per come essa è realmente.

Ed è evidente che il nostro modello sportivo è oggi troppo poco
capillare e diffuso, troppo autoreferenziale e ingessato, intossicato in alcune
sue parti da una mentalità antisportiva, profondamente sbilanciato nelle sue
componenti di base e di vertice, sia in termini di spazi concessi che di
risorse.

Sotto quest’ultimo aspetto le considerazioni che vorrei fare sono due.

La prima: non si può negare che il contributo al cosiddetto sport
per tutti è insufficiente; viviamo un paradosso assurdo per cui la parte
quantitativamente più rilevante sembra invisibile e passa spesso per
secondaria. Un esempio: la mutualità generale, prevista per redistribuire le
risorse economiche a favore di uno sviluppo omogeneo nel mondo del calcio e del
sostegno al sistema sportivo nella sua complessità, non ha inciso in modo
significativo, o meglio ha avuto effetti limitati al solo mondo del pallone. Ho
dei dubbi sul fatto che le risorse messe a disposizione della Fondazione per la
mutualità negli sport professionistici a squadre – istituita con il decreto
Melandri – siano sufficienti, se rapportate ai compiti a questa assegnati,
ovvero il sostegno a settori giovanili del calcio, a progetti legati ad altre
discipline sportive, nonché il miglioramento della situazione dell’impiantistica
sportiva.

A tal proposito permettetemi una breve parentesi. Nel Paese esiste
un divario inaccettabile tra Nord e Sud, sul quale evidentemente non si ritiene
prioritario intervenire, se consideriamo ad esempio le reticenze per approvare velocemente
la legge stadi di cui sono relatore alla Camera dei Deputati, dopo anni di
gestazione nei due rami del Parlamento. Un provvedimento che consentirebbe la
realizzazione di strutture sportive multifunzionali attraverso una procedura
delineata e scandita in tempi certi, facendo sedere ad un tavolo comune (in assoluta
trasparenza) imprenditori – disponibili a impegnare loro capitali in cambio di
ritorni economici – e istituzioni pubbliche – desiderose di dare risposte alla
domanda di sport sui territori.

Solo investendo nell’aspetto infrastrutturale si può, a mio
avviso, permettere all’Italia di raggiungere standard di eccellenza che la
collochino al pari delle nazioni sportivamente più evolute, non condannandola a
restare in una condizione di tipo prestorico, con impianti che funzionano un
solo giorno a settimana e che, nella maggior parte dei casi, sono inadeguati
dal punto di vista degli standard di sicurezza.

Tornando al tema delle risorse, la seconda considerazione da fare
è la seguente: il meccanismo di finanziamento allo sport tramite il contributo
erogato annualmente dallo Stato e condizionato dalla salute della finanza pubblica,
non solo rischia di limitarne l’autonomia da sempre rivendicata come necessità,
ma mentre garantisce certezza di risorse, finisce per coprire le reali
potenzialità di un settore che nei fatti produce più di quanto non riceva.

Lo sostengo da tempo e ritengo sia giusto ribadirlo a maggior
ragione all’avvio del nuovo quadriennio olimpico. E non mi limito a ripeterlo in
un luogo potrei dire “protetto”, all’interno della mia “casa”, rinunciando a
cercare convergenze sul punto.

Il nostro atteggiamento nei confronti del massimo organo di
governo dello sport è sempre stato di assoluto rispetto, ma non certo di
sudditanza perché, dopo aver lottato per vedersi riconoscere il sacrosanto diritto
ad esistere nella prima assemblea di Latina, abbiamo continuato a combattere
perché ci venisse dato quanto ci spettava. Perché volevamo essere riconosciuti
e rispettati per il servizio che, assieme ad altri, abbiamo svolto e
continuiamo a svolgere a favore dello sport e dei suoi valori: lealtà,
sacrificio, rispetto per le regole e per gli avversari. E non a caso siamo
stati il primo Ente di Promozione Sportiva ad essere rappresentato all’interno
della Giunta CONI!

Dalle idee ai fatti; così ho fatto scrivendo ad inizio anno una
lettera al Presidente Gianni Petrucci per chiedergli di unirsi a quanti da tempo
invocano una revisione del sistema sportivo. Perché, se è palese che una
riforma è irrimandabile, è altrettanto vero che non potrà essere portata
felicemente a termine senza che a farsene carico siano gli stessi soggetti che
governano il sistema.

Sul punto la presentazione de “Il Libro Bianco dello Sport
Italiano – Sport-Italia2020”, voluto dal Comitato Olimpico come primo atto di un
disegno di autoriforma “Lo Sport Italiano verso il 2020”, potrebbe essere un
segnale importante, a patto che non ci si limiti ad operazioni superficiali, figlie
della logica del tutto cambia per restare uguale a se stesso.

Perché vi sia un mutamento reale, i nodi più importanti da affrontare
sono cinque.

Il primo: la governace dello sport. Sin dal suo nascere il sistema
sportivo è stato plasmato e governato dal Comitato Olimpico Nazionale Italiano
che, diversamente da quanto accade negli altri Paesi, non si è limitato ad
organizzare il movimento olimpico, ma ha assunto il ruolo di unico punto di
riferimento dell’intero apparato, vista l’incapacità o la debole volontà dello
Stato di regolare lo sport; una sorta di esternalizzazione di funzioni sui
generis.

Con il passare degli anni e con la riforma del titolo V della
Costituzione, a fianco del CONI hanno preso posto le Regioni a cui è stata
riconosciuta autonomia normativa di settore, nel rispetto dei principi
stabiliti a livello centrale. Siamo quindi andati verso una forma di
federalismo sportivo che, mentre soddisfa la possibilità di poter plasmare
micro-modelli rispondenti alle caratteristiche locali, risulta limitato dal
verticismo complessivo del sistema e finisce per incrementare quelle disparità
visibili anche sul piano della dotazione strutturale.

A tal proposito, l’atto d’intesa firmato a Rimini a fine dello
scorso ottobre da CONI, Regioni, UPI e ANCI è un primo passo per ottimizzare gli
impegni e le risorse dei diversi soggetti chiamati ad intervenire sul mondo
sportivo in vista del raggiungimento di obiettivi condivisi, ma dovrà avere
traduzione pratica. Se rimanesse allo stato attuale, ovvero come insieme di
buoni propositi, sarebbe perfettamente inutile.

Dalla questione della governance sportiva ne discende un’altra, la
seconda: con il governo Monti è stato istituito un altro interlocutore del
mondo sportivo, il Ministero per gli affari regionali, il turismo e lo sport
che si interfaccia al CONI. Poiché quest’ultimo, a prescindere dalle etichette,
nel tempo si è configurato come una sorta di ministero, quali possono essere i
rapporti tra i due? Pur non sapendo con certezza se nel prossimo esecutivo
verrà mantenuta in vita tale struttura amministrativa, viene naturale chiedersi
se il soggetto oggi guidato da Piero Gnudi sia solo un notaio delle scelte del
CONI o se invece siano possibili forme di cooperazione e condivisione,
attraverso l’introduzione nel modello di una dose maggiore di orizzontalità e
di condivisione delle decisioni.

Terzo punto: manca una distinzione chiara a livello normativo tra
lo sport competitivo e quello non competitivo, riconoscibile nel nostro
ordinamento solo nell’ambito della tutela sanitaria. Mentre infatti gli atleti
che gareggiano devono rivolgersi al medico dello sport per il rilascio del
certificato di idoneità sportiva, è sufficiente per l’abituale frequentatore di
una palestra recarsi dal proprio medico di famiglia. Il primo si sottopone a
esami specifici, il secondo no.

Benissimo: divisione chiara a livello di salute, ma non così netta
negli altri campi. Infatti, come emerso da vostre segnalazioni, in alcuni casi
la Guardia di Finanza ha inflitto sanzioni economiche ad associazioni nostre
affiliate che si occupavano di fitness, sostenendo che non organizzando
competizioni sportive, non potevano beneficiare del sistema fiscale agevolato previsto
per l’attività svolta a livello competitivo/istituzionale, come quella
organizzata dalle associazioni affiliate a Federazioni Sportive Nazionali.
Eppure sappiamo bene che la norma in cui viene definita l’attività sportiva
dilettantistica non stabilisce come obbligatoria l’attività competitiva. Per di
più, per beneficiare del regime fiscale agevolato, è obbligatoria l’iscrizione
al registro CONI che, secondo quanto disposto dalla legge, può avvenire
indifferentemente tramite l’affiliazione ad una Federazione o ad un Ente di Promozione
Sportiva, vista la parificazione giuridica tra i due soggetti. Casi come questo
dimostrano l’importanza di sciogliere questo nodo.

Quarto: la questione del finanziamento del sistema. Mi domando se
sia sensato accettare un finanziamento pubblico annuale che impedisce una programmazione
di medio e lungo tempo, basata ad esempio sui cicli olimpici, oppure se sia
meglio lavorare per un sistema integrato dove alla parte di risorse pubbliche se
ne aggiungano altre derivanti dai giochi e dalle scommesse legate al mondo
dello sport.

Quinta e ultima questione di rilievo: la diffusione dello sport e
la maturazione della cultura sportiva non possono prescindere da un maggiore
investimento nella scuola. Non c’è scuola senza sport. Chi di voi ha figli lo
sa bene; alle elementari l’attività sportiva è residuale, alle medie ha una
valenza prevalentemente ludica e alle superiori viene per lo più considerata
come una valvola di sfogo per scaricare il peso delle altre materie. Ma non è
colpa dei ragazzi; la loro percezione è condizionata dal contesto in cui
vivono, è il prodotto di una cultura – permettetemi di dire – un po’ sgobbona e
snobista. Come è possibile, quindi, che un giovane cresca consapevole del fatto
che lo sport non solo fa bene alla salute e alla mente, ma aiuta anche a
crescere meglio, arginando fenomeni come il bullismo, il razzismo in qualsiasi
declinazione o altre forme di violenza? Difficile.

Perché lo sport si naturalizzi nella cultura italiana come una sua
componente legittima, lo si dovrebbe insegnare ai giovani sin dalle scuole
primarie. E non è sufficiente che nell’offerta formativa sia compresa l’educazione
fisica; ne deve essere garantita la qualità e la continuità, prevedendo anche
una diversa distribuzione delle ore ad essa dedicate. Pertanto è senz’altro
importante il progetto di alfabetizzazione motoria nella scuola primaria per il
quale il CONI ha stanziato 7,5 milioni, il Ministero dell’Istruzione
l’università e la ricerca 2,5 milioni e quello dello sport 2 milioni, ma non è
certamente decisivo. Coinvolge solo il 20 % degli alunni degli istituti
scolastici primari.

Di tutto questo dobbiamo occuparci, ciascuno nei propri contesti
quotidiani e con i mezzi a propria disposizione, forti del fatto che lo scopo
della nostra azione non può limitarsi alla sola (seppur fondamentale)
diffusione della pratica sportiva. Non ci basta che più persone pratichino
sport, vogliamo che il confine tra sport e vita diventi quanto più possibile
sfumato. Perché vivere senza fare sport è negare a se stessi la possibilità di
stare in salute ed è privarsi di un’educazione al rispetto delle regole e della
diversità. Vogliamo che a fianco delle istituzioni scolastiche che formano le
nuove generazioni vi sia una palestra di vita altrettanto importante, capace di
forgiare i corpi e le menti degli italiani di oggi e domani. E vogliamo che
l’architettura del sistema sportivo ne rispecchi la sua ricchezza, la sua forza
e varietà. Pluralismo e partecipazione. Questi gli ingredienti della nostra
ricetta. Non ci stancheremo di ripeterla, né desisteremo dal tentativo di
vederla realizzata.

Il nostro vantaggio risiede nell’essere una famiglia forte,
radicata sul territorio, ma soprattutto nella mente e nel cuore di chi è venuto
in contatto con noi. Abbiamo ambizioni grandi, perché abbiamo seminato bene e raccolto
buoni frutti. Abbiamo quindi tutte le carte in regola per migliorarci ed essere
sempre più centrali.

Centrali, nel panorama degli Enti di Promozione Sportiva e più
genericamente nel mondo dello sport, se dimostreremo di essere capaci di
accendere i riflettori su quegli aspetti critici che prima ho evidenziato; se
rinunceremo a qualche gratificazione superficiale per guadagnare in
autorevolezza e professionalità con la caparbietà e l’intraprendenza che ci
contraddistinguono; se non ci fermeremo a guardare cosa fanno gli altri, ma
avremo la fantasia di superarli in progettualità ed efficienza.

Centrali nel panorama del Terzo Settore, se saremo in grado di
conquistare una larga fetta di quell’ampio spazio apertosi in un periodo in cui
mancano forti riferimenti valoriali e in cui risultano impoveriti e indeboliti
i luoghi tradizionali in cui si formavano e strutturavano le relazioni sociali:
la famiglia, la scuola e la politica.

Ci stanno provando le ACLI; a partire da quest’autunno il
Presidente Andrea Oliviero ha chiamato a raccolta i suoi, chiedendo loro di
mettere il proprio impegno associativo ispirato ai valori della tradizione
cattolica a servizio di un progetto moderato-riformista identificato con un
nome che sembra anche una meta: Verso la Terza Repubblica. Un’esperienza che
dovrebbe chiudere con il passato, proseguendo le attività del governo Monti, un’agenda
in parte imposta dall’Europa, in parte dall’urgenza di cambiamento da sempre
avvertita, ma ostacolata dalle grandi resistenze delle lobbies di potere e
dagli egoismi locali e generazionali.

Ma mentre Olivero con le ACLI ha invocato il protagonismo di una
parte specifica del mondo associazionistico, per essere centrali all’interno
del Terzo Settore credo sia giusto porsi un obiettivo più alto. Vorrei che ASI diventasse
il punto di riferimento di quanti si riconoscono nei nostri valori e nella nostra
storia, ma anche di chi desidera raccogliere la sfida a cui la società
organizzata è chiamata. Vorrei allargare il nostro orizzonte, non solo perché
da sempre abbiamo evitato di chiedere una tessera a chi volesse entrare nella nostra
comunità, ma perché il momento ci chiede di contribuire con il nostro bagaglio
di esperienza e di potenzialità al rilancio di un Paese in cui per troppo tempo
non si è pensato realmente al futuro. E questo è vero al di là della retorica,
se pensiamo che solo l’1,4% del nostro prodotto interno lordo è dedicato
all’investimento sul domani e se consideriamo che, come riporta il rapporto
2012 sull’infanzia di “Save The Children”, sono dieci milioni e duecentomila i
bambini e i ragazzi dieci volte più scoraggiati che in Grecia, eppure più bravi
a scuola che in Germania, impareggiabili scalatori di condizioni avverse.

Chi meglio di noi conosce quanto male è stato provocato dal filo
spinato dei recinti; chi meglio di noi sa che è possibile aprirsi agli altri
senza perdersi? Chi meglio di noi sa che gli steccati fortificano l’unione tra
i membri di un gruppo, ma allo stesso tempo ne indeboliscono la capacità
rappresentativa e il suo capitale relazionale? Questo non significa rinunciare
alla nostra tradizione, perché come disse Gustav Mahler la tradizione è la custodia del fuoco non l’adorazione della cenere e,
d’altra parte, la persistenza della nostra identità risiede, come vi dicevo
all’inizio, nel nostro essere famiglia: un collegamento con il passato e un
ponte verso il futuro.

ASI deve aprirsi e offrirsi come referente del vasto ed eterogeneo
mondo dell’associazionismo per farsi potatrice di una proposta sociale e
politica incentrata sulla richiesta di un modello culturale di cui lo sport sia
parte integrante e di un sistema di welfare di qualità e stratificato, in cui
pubblico e privato collaborino in vista dell’offerta di servizi adeguati per i
cittadini. Una proposta che metta al centro il lavoro in tutte le forme in cui
si manifesta, valorizzando quella ricchezza sana e spontanea che è il
volontariato.

Non vi nascondo le difficoltà, ma vi dico che abbiamo il vantaggio
di essere una comunione di uomini e donne che in un tempo più o meno lontano
scelsero Alleanza Sportiva Italiana non perché fosse conveniente, ma perché
credevano nella sua missione. Credevano in quei valori che sono tutt’oggi
centrali e rimangono quale costante della nostra azione; credevano che lo sport
meritasse un posto di rilievo nella cultura italiana, essendo una biblioteca
ricca e eterogenea per conoscere la vita. Credevano che la società fosse una
risorsa da tutelare. E sulla base di queste convinzioni lavorarono ad un
progetto che era ed è il frutto di un impegno collettivo, cresciuto con la cura
e la dedizione di molti; era ed è l’articolazione di idee nutrite dalla
passione e dall’amore di tutti. O tutti insieme, o nessuno singolarmente:
questa è Alleanza Sportiva Italiana.

Oggi siamo una famiglia che si affaccia al futuro con la
consapevolezza di chi sa di avere dato tanto, ma non è ancora paga. Perché ogni
realizzazione con il suo portato di concretezza e con il suo essere finita,
costringe la nostra idea in uno spazio stretto e definito. Perché per noi ogni
conquista è un punto di partenza, o meglio di ri-partenza, uno stimolo ad
andare avanti e oltre, convinti che la
vita debba essere soprattutto volontà diretta da un pensiero.

Perché con uno slogan oggi di moda potrei dire che il meglio deve
ancora venire, anche se qualcosa di bello è già stato e a noi piace ricordarlo
ieri come oggi. Insieme.

 

 

 

 

 

 

La relazione integrale di Claudio Barbaro, presidente di Alleanza Sportiva Italiana (ASI), presentata in queste ore a Montesilvano (Pe), in occasione dell’Assemblea Nazionale dell’Ente di promozione sportiva. Presenti ben 318 delegati in rappresentanza di 9.200 associazioni sportive localizzate in tutte e venti le regioni tricolori.

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Marcel Vulpis

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