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Fu indimenticabile la notte che conoscemmo Gerd Müller

(di Massimiliano Morelli)* – Conoscemmo Gerhard Müller in una notte di fine primavera, una notte calda che pareva estate piena. Lo conoscemmo e non lo avremmo più dimenticato. L’occasione fu la semifinale della Coppa Rimet. Quella notte, era il 17 giugno del 1970, lo stadio era l’Azteca e il pubblico messicano non è che fosse dalla nostra parte, visto che nella partita precedente avevamo sconfitto proprio i padroni di casa. Ma qui in Italia la sfida contro la Germania univa sentimenti diversi che scavalcavano perfino quelli sportivi. Basti pensare al fatto che molti italiani, lungo lo Stivale, “vedevano” ancora i teutonici come nemici.
La guerra era finita da venticinque anni. E se non si riescono oggi a rimarginare le ferite di quel conflitto, figurarsi “appena” venticinque anni dopo. L’altura, l’afa, una sfida infinita, dettata inizialmente dal gol di Roberto Boninsegna e allungata per i trenta minuti più appassionanti della storia del calcio da Karl Heinz Schnellinger, all’epoca difensore del Milan, che a un amen dal triplice fischio infilò la porta degli azzurri. Fu quello, per noi italiani, l’inizio dell’incubo chiamato Gerhard Müller (detto “Der Bomber”). Che era un centravanti nato a novembre del ’45, quindi a guerra finita, e che nel 1964 venne notato dai dirigenti del Bayern Monaco, squadra alla quale ha legato per sempre il suo nome.
Ma quella degli anni Quaranta era una generazione di calciatori che se optava per una maglia, quella maglia l’avrebbe indossata per sempre: Riva, su tutti. E poi Mazzola e Rivera, Bugnich e Facchetti… Insomma, quell’Italia-Germania si trasformò nella partita del secolo e Muller, basso e neanche poi tanto smilzo, i nostri se lo ritrovarono ovunque, nell’area di rigore comandata da Enrico Albertosi. Segnò una volta di piede, coi nostri a scontrarsi fra loro mentre cercavano di riprendere quel pallone che lemme lemme stava sgusciando nella rete azzurra; e un’altra di testa, lui che era alto un metro e settantacinque centimetri, altezza da gente normale. Non abbiamo davvero idea di cosa avvenne quella notte, ma nonostante la verve del più forte attaccante della storia del calcio tedesco – ma ancora non sapevamo che lo sarebbe diventato – riuscimmo a battere i panzer e a sbarcare in finale, sfida nella quale il Brasile avrebbe comunque demolito la nazionale di Valcareggi.
Müller fu un’icona, anche in Italia i ragazzini che giocavano a pallone per strada si sentivano molto dei piccoli Gerd Müller, che per la cronaca a Mexico 70 vinse il titolo di capocannoniere. E che con la nazionale avrebbe poi vinto l’Europeo del 1972 e la prima coppa del mondo per nazioni due anni dopo, competizioni conquistate entrambe grazie a un suo gol prodotto in finale. Di lui, titoli e trofei vinti a parte, sapevamo da tempo che aveva problemi di vista, e ci sembrava assurdo pensare che uno come lui, che vedeva la porta avversaria da ogni posizione, fosse costretto a inforcare dei “fondi di bottiglia” per vedere a un metro davanti il suo naso. Le statistiche dicono che abbia segnato più gol di Pelè. Ma le statistiche certe volte, lasciano il tempo che trovano. Una cosa è certa, è il calciatore tedesco che ha segnato più gol nella Bundesliga, un po’ come Silvio Piola in Italia. Può bastare e avanzare per rammentare che quella notte che lo incontrammo allo stadio Azteca, avemmo la fortuna di vedere all’opera uno dei calciatori più forti di ogni epoca. Uno che, quella notte, trasformò a colori il bianco e nero delle tv italiane.
* scrittore e giornalista sportivo
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