George Best, la rockstar col gusto del dribbling
(di Massimiliano Morelli)* – Oggi avrebbe compiuto settant’anni, ma se ne è andato via undici anni fa che neanche aveva scavalcato i sessanta. George Best lascia ancora adesso un vuoto incolmabile nel calcio, un po’ perché un’ala geniale come lo era lui ora non si trova manco col lanternino e un po’ perché tanti hanno provato a ricopiarne le sregolatezze, ma nessuno è riuscito a esser crazy come mister George, natali nordirlandesi e una vita vissuta sempre col piede pigiato sull’acceleratore, pure in curva, pure al buio, pure quando la macchina non aveva i freni. Una sgommata al semaforo era come un dribbling vincente; una bevuta? Paragonabile al pallone mandato sotto al sette. E le fidanzate come gli allenamenti, e una partita a carte il rigore decisivo da calciare in finale. Ora è inutile riscrivere qui le frasi che lo hanno reso immortale più che celebre, su Best è stato scritto tutto e il suo contrario, mentre la mente maledice il tempo che passa e i pensieri si sovrappongono ai ricordi, alle immagini d’epoca, a quel sorriso beffardo, alla fossetta sul mento che da bambini ci raccontavano fosse il bacio dell’angioletto, a quegli occhi azzurri che ne avranno viste talmente tante che non gli sarebbe bastata manco un’altra vita per raccontarle tutte.
Personaggio pure senza l’ombra d’un tatuaggio da ostentare sulle braccia, hipster quando la barba era l’anticonformismo elevato all’ennesima potenza, la spider cambiata ogni volta che il posacenere si riempiva di cicche, Best è stato “special one” che Mourinho aveva appena tre anni. E pareva una rockstar più che un calciatore. Col basettone perfetto e il capello alla moda, il fisico da indossatore e un estro inimitabile che lo portò a sfidare Cruijff quando gli disse “Caro Johan sei il più forte, ma solo perché non ho tempo da perdere”. Poi la leggenda, il carisma e vent’anni di carriera, la metà col Manchster United e l’altra metà a far da girovago, qua e la, perfino in Sudafrica e negli Stati Uniti. Prendere o lasciare, la vita per quel figlio di Belfast nato un anno dopo la guerra e che amava il dribbling quasi come un whisky mandato giù tutto d’un fiato, è stata questa la sua vita, a torto o a ragione.
- scrittore e giornalista sportivo
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