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Maradona, il genio e l’antisistema
(di Massimiliano Morelli)* – Lo incontrai in ascensore, lui e io da soli, aveva una giacca improponibile, lustrini e paillettes, si presentò, mi disse “sono Diego“. Non dovevo intervistarlo, l’incontro fu casuale, si infilò nell’ascensore per evitare il nugolo di colleghi che lo inseguivano e cercavano di strappargli una dichiarazione, mi fece sorridere quel gesto, ingenuo e audace ma quanto mai utile per seminare chi, alla ricerca di scoop, voleva sapere, soprattutto toccarlo.
Maradona è passato a miglior vita qualche giorno dopo un intervento chirurgico, dopo che le rassicurazioni di medici e familiari avevano fatto immaginare un immediato ritorno al proscenio. E’ morto lo stesso giorno di Fidel Castro, del quale s’era tatuato l’immagine, con buona pace di chi cercava di distoglierlo dall’idea vagamente politicizzata. Ed è morto quindici anni dopo George Best, come lui genio e sregolatezza, fenomeno in campo e chiacchierato al di fuori.
Ma di un calciatore andrebbero considerate le giocate, non le dichiarazioni e i comportamenti extra-gara. E dire che uno come lui avrebbe potuto vivere di luce riflessa, il “sinistro di Dio”, etichetta che fa il paio con la sua dichiarazione rilasciata dopo il gol all’Inghilterra, la “mano di Dio”, quando Argentina e britannici si guardavano in cagnesco per le isole Falkland. E’ stato l’antisistema, amato per le giocate, ostracizzato per i comportamenti e soprattutto per il suo modo di interpretare le regole, sempre fuori dagli schemi, sempre lontano dall’impomatato mondo delle federazioni, che lo avrebbero voluto come un “chierichetto”, tipo “fai questo” e “fai quello”, “questo non si dice”, questo non si fa”.
No, Diego era diverso, non aveva paura di esternare pensieri e parole. Sapeva fare squadra, anche se era un genio che avrebbe potuto giocare da solo. Mai protagonismi sul terreno di gioco, mai uno sguardo sbieco al compagno di squadra che non gli aveva passato il pallone. E se Pelè sapeva infilare il cucchiaino in una tazzina da caffè distante venti metri con un tocco di classe, Maradona sapeva palleggiare all’infinito con un mandarino. Provateci, servono equilibrio, tocco felpato e muscoli d’acciaio. L’Argentina gli deve un mondiale vinto, e solo la dabbenaggine di chi lo vedeva ragazzino gli impedì di conquistare il primo titolo iridato nel 1978; Napoli gli deve due scudetti e una Coppa Uefa, ma soprattutto quella capacità di saper trasformare la squadra da eterna incompiuta a campione. Chiunque gli deve qualcosa, perché ogni suo gesto tecnico è stato luce per gli occhi, anche per quelli di chi non conosce quel dio pallone come sacralità delle nostre giornate.
* giornalista sportivo e scrittore
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