Media – Il Manifesto fotografa il calcio italiano e la situazione stadi
Il Manifesto 31/12/2008 Matteo Lunardini ed. Nazionale p. 16
Il pallone dei balocchi
2009 La crisi finanziaria e l’orizzonte nero del calcio tra stadi liberalizzati e tifosi in fuga
Nel 2008 la crisi finanziaria si è abbattuta sull’economia-mondo con la furia di un terremoto. Ora tutti temono il 2009 e il susseguente tsunami che investirà l’economia reale. Una tragedia ampiamente prevista. Da tempo scricchiolii facevano temere sulla stabilità dei maggiori settori produttivi (amato calcio compreso) ma avendo l’economia politica trascurato gli studi macroeconomici e di longue durée a favore del micropensiero aziendalista, la ricetta anti-crisi è stata una soltanto: meno spese e più ricavi vuol sempre dire virtù. Nel calcio, discorso analogo. La colpa è dei consumatori (leggi: i tifosi) e dei calciatori (leggi: i lavoratori): i primi non riescono a spendere quanto vorrebbero, i secondi guadagnano tanto (i microeconomisti ignorano sempre che consumatore e lavoratore siano la stessa persona). Allora, come fare? In Italia, improvvisamente, dopo l’infatuazione per il modello «stadio inglese» (già caduto in disgrazia perché lo stadio è di proprietà delle società, a costi elevatissimi), ecco farsi strada il modello «stadio americano». Si tratta di impianti ultramoderni dove si è consumatori tutta la settimana e non solo durante i 90 minuti, dove non si fruisce soltanto calcio ma anche pattinaggio, cinema, palestre, negozi, musei, dove facoltose famigliole investono tutto il loro tempo e denaro in una partita di calcio senza essere angustiate dalla feccia subumana dei facinorosi (leggi: gli ultrà). Come per gli hub low cost, è l’indotto ad assicurare il surplus che copre i costi di gestione esagerati delle squadre.
Politicamente, è lo schema utilizzato già in passato per regalare la diretta televisiva nazionale alle reti private (Mundialito per nazioni del 1981) e per far comprare a tutti i decoder del digitale (esclusiva dei diritti per le partite): fare leva sulla smisurata passione calcistica degli italiani per portarli, come Pinocchio e Lucignolo, in un paese dei balocchi che più che uno stadio pare una Disneyland. Per farlo, però, serve una commistione tra pubblico e privato. Così, agli inizi di novembre, arriva un disegno di legge bipartisan che snellendo le procedure burocratiche introduce una specie di liberalizzazione degli stadi. Si mette in moto anche Antonio Giraudo, che dal suo esilio mazziniano di Londra apre una società di consulenza sportiva e immobiliare, la Edenhill (e nei giorni scorsi s’incontra con Galliani). Tutto pronto, via ai progetti: la Juventus ottiene il nulla osta dal Comune di Torino per la costruzione del nuovo Delle Alpi (105 milioni di euro). La Fiorentina esagera e affida a Fuksas un progetto per una cittadella viola con stadio, centro commerciale, museo di arte moderna, parco a tema: era previsto in un’area di proprietà di Ligresti, sequestrata però dalla magistratura. Progetto comunale avveniristico per una cittadella dello sport anche a Siena e nuovo stadio al posto del Friuli a Udine. Sestri Ponente pensa a uno stadio da 35mila posti con il quale scippare la Sampdoria e il Genoa al Comune di Genova.
Anche Cellino, presidente del Cagliari, avendo trovato difficoltà da parte del Comune nel sostituire il Sant’Elia con la sua Caralis Arena si sarebbe rivolto alla vicina Quartu sant’Elena (stadio con palestre, ristoranti, centro benessere con all’esterno parco commerciale da 15 ettari munito di ipermercato, pista da pattinaggio, campi da beach volley). La Roma, ottenuta dalla giunta Veltroni la edificabilità su un terreno di 29 ettari, chiede di erigere una cittadella giallorosa (tutto fermo per il dissesto finanziario dei Sensi: sarebbero pronti a subentrare Caltagirone e Toti). La Lazio progetta lo stadio delle Aquile, con piscine, campi, ristoranti, shopping center (500 milioni di euro); vorrebbe costruirlo nell’area sulla via Tiberina ma l’idea è stata stoppata dal sindaco Veltroni: la zona è a rischio esondazione del Tevere (se n’è avuta prova poche settimane fa ma si dice che Alemanno non la pensi così). L’Inter progetta un megastadio a Rho-Pero (80 punti ristoro, 4 ristoranti, 400 milioni di euro) ma poi s’incontra con Milan e Comune per iniziare a studiare la ristrutturazione della cittadella sportiva di San Siro: si vorrebbe abbattere l’impianto del Trotto per lasciare spazio a un nuovo stadio che si affiancherebbe al Meazza (il quale rimarrebbe in vita).
Tutto pareva perfetto. Il tifoso-contribuente copre i costi, il tifoso-consumatore garantisce i profitti futuri. Poi scoppia la bolla immobiliare e con essa comincia la più grave crisi a memoria di homo-economicus. Improvvisamente si scopre che il tifoso e le banche non hanno una lira, che l’idea delle mega-arene-mercato è una utopia (a meno che non si pensi di rilanciare keynesianamente l’economia disseminando la nazione di stadi), e che, cosa ancor più grave, siamo tutti nella merda.
La crisi attuale non è una crisi di un settore: è una crisi di domanda. Per anni gli stipendi dei lavoratori sono stati oggetto di ruberie, mentre il consumatore veniva prosciugato come uno stoccafisso. E il tifoso di calcio ancora di più. Egli è un consumatore atipico, un ammalato fedele alla sua malattia fino alla morte, uno che non si può nemmeno affidare alla cosiddetta «elasticità della domanda» per sfuggire al salasso (non può mica cambiare squadra). È lui che ha pagato i costi «sopra le proprie possibilità» del calcio italiano. L’ha fatto giornalmente comprando biglietti, merchandising, pay per view e soprattutto pagando la più subdola delle tasse: lo sponsor. Ignaro che i costi degli spazi pubblicitari si scaricano sempre sui prodotti, il tifoso (ma anche chi non lo è) ha pensato a volte di fruire dello spettacolo gratis, ma andando al supermercato ha pagato sia la sua squadra che l’odiata tv commerciale (Emilio Fede non è gratis!) e tutto il carrozzone mediatico (Ilaria D’Amico compresa).
È stato prosciugato per anni e ora non ce la fa più. Diserta gli stadi e gira canale quando vede i commentatori sproloquiare in Tv. Vorrebbe vedere i gol ma questi gli sono preclusi da difficoltà oggettive: il «percorso ad ostacoli» (parole del capo della polizia Manganelli) per andare allo stadio, le ore di pubblicità per aspettare di vedere i gol. Nel 2009 la spesa per sponsorizzazioni, secondo uno studio condotto dall’agenzia di consulenza sportiva Stage Up, diminuirà dell’8,6%. Ad essere colpite saranno soprattutto le piccole squadre che stipulano contratti generalmente di un anno. Gli effetti sulle grandi squadre, le cui sponsorizzazioni hanno una durata media di 4,3 anni (10,3 per gli sponsor tecnici), dovrebbero essere limitati per i prossimi anni, a meno di colossali fallimenti a catena (in Inghilterra la banca Northern Rock continua a sponsorizzare il Newcastle nonostante sia stata rilevata, sull’orlo del fallimento, dal governo britannico). Ma dopo? Il 76% degli introiti delle squadre arriva da media e sponsor e non dal botteghino. Gli sponsor sono in fuga, mentre la maggior parte dei diritti in Italia è oggi in mano a Rai, Mediaset e Sky con accordi stipulati fino al 2010. Da quell’anno si tornerà alla vendita dei diritti collettivi che secondo le previsioni ottimistiche di qualche anno fa dovevano portare 850 milioni di euro ma che invece, dato lo sfilarsi di Mediaset e la tassazione di Sky, nonché la perdita d’appeal del calcio italiano, porteranno molto meno. Questo per la serie A. In B, secondo le previsioni, sarà uno stillicidio. Moriranno molte squadre, sopravvivranno (o saranno riesumate dagli inferi delle serie non professioniste dopo il fallimento) solo quelle che godono della passione di un buon numero di tifosi. I quali torneranno a tifarla, come si usava qualche anno fa, portandosi i panini da casa.
p.s. Alcuni giornalisti di talento negli ultimi anni ci hanno abituato a concludere la serie di notizie catastrofiche con una good news. Eccola: dopo la crisi del ’29 il consumo di sport aumentò. E aumentò soprattutto la pratica sportiva. In Italia, fu un vero boom. Vincemmo nel calcio, nel ciclismo nell’atletica, nella boxe. Non fu merito, come pensa qualcuno, del fascismo. Ma della crisi. Si ritornò ad apprezzare tutto quel che non è commerciale e profittevole: come praticare sport. Che è, ed sempre stata, l’attività più salutare ed economica che si possa fare.
Sporteconomy pubblica un articolo de Il Manifesto, di Matteo Lunardini, sul tema del futuro del calcio italiano e degli stadi (soprattutto con riferimento ai grandi club).
No Comment