Quella notte di 50 anni fa, alla radio, per Benvenuti vs Griffith
(di Massimiliano Morelli*) – Esistono momenti di sport che sembrano sassolini d’una strada sterrata e momenti di gloria che diventano macigni. Esiste il racconto di uno sport ancorato al bianco e nero, ma capace di diventar leggenda e “scoop costi quel che costi” legati a episodi che, qua e là, “sembrano” ma non “sono”. Esiste, soprattutto, la leggenda. Quella che viene tramandata di padre in figlio, che resta indelebile nella mente di chi l’ha vissuta e che si trasforma in punto fermo per chi ascolta il racconto. Al Madison Square Garden di NYC, Nino Benvenuti sfidò il campione del mondo Emile Griffth e non c’era la televisione per quel match di pugilato, la notte “mamma Rai” proponeva ancora il monoscopio sbiadito. Era il 17 aprile del 1967, l’Italia era in lutto per la morte di Totò, scomparso due giorni prima.
E il Sessantotto manco era nell’anticamera del cervello di chi sarebbe poi sceso in piazza. Sembrava una rivoluzione, si dimostrò negli anni a seguire un disastro, quel “maledetto” 1968. Ma, almeno, c’era la radio. Che era diversa da quella di oggi. Raccontava e non pretendeva di fare opinione. I cronisti descrivevano, e riuscivano a colorare con voce, cadenza, inflessione, grinta e passione qualsiasi momento di vita. Avevano fiato, e soprattutto mente sgombra da dietrologie. Appoggiavano le cuffie, accostavano la bocca al microfono e partivano con la sinfonia del racconto.
Nino Benvenuti, classe 1938, italiano di Isola d’Istria e campione olimpico a Roma (1960) era lì, sul quadrato più affascinante del pianeta, per affrontare il re dei medi, quel pugile nero nativo delle Antille considerato all’epoca imbattibile e considerato fra i più grandi boxeur di sempre. Si studiarono a fondo nel primo round, mentre chissà quanti milioni di italiani si stavano esaltando lungo lo Stivale, con l’orecchio incollato alla radio. E subito si commossero quando nel secondo round Paolo Valenti annunciò che l’italiano (“bianco e bello” per la stampa Usa dell’epoca) aveva messo al tappeto lo yankee di colore “nero”. Che invece si rialzò, comunque incredulo, ma raccolse le forze e al quinto round restituì il colpo all’istriano, che andò giù a sua volta, come un castello di sabbia. Qualcuno pensò alla fine del sogno. Invece Benvenuti si rialzò e ribatté colpo su colpo. E col passare dei minuti sembrò perfino più fresco dell’antagonista, che negli ultimi tre minuti azzardò il tutto per tutto pur di mantenere la corona. Gong, l’ultimo, e i pugili che s’abbracciarono, stanchi, esausti, sfiniti. I cartellini dei giudici, la lettura del verdetto, il braccio dell’arbitro che accompagnò verso il cielo quello di Nino Benvenuti. Finì così, in gloria, il campione olimpico divenne anche campione del mondo. E gli italiani piansero di gioia, la radio gracchiò. Era l’alba, ormai. Un’altra Italia, oggi scomparsa tra app e like dal segno inutile.
- giornalista sportivo, autore teatrale e scrittore
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