Rassegna stampa – La Repubblica tratta il tema delle maglie e degli sponsor
Così si stinge anche la passione
di GABRIELE ROMAGNOLI – fonte: LaRepubblica
Prendete gli azzurri, per esempio. Vanno in Sudafrica, sbagliano il candeggio e salta fuori "la compagnia dei celestini". Con l’aggiunta poco rassicurante di pantaloncini color cioccolato. I risultati sportivi sono noti, quelli estetici, se possibile, peggiori. S’è levato un coro sulla stampa internazionale: "Che cosa si sono messi addosso?". Risposta: "E’ stata una scelta dello sponsor tecnico". Ma una maglia è molto più che una maglia, un colore più che un colore. Si dice, appunto, "attaccamento alla maglia", si parla di "nostri colori". Se cambiano, si aggiunge sconcerto a sconcerto. Le facce, salvo poche eccezioni, non le riconosce più nessuno, resta(va) la maglia, resta(va)no i suoi colori. Segna(va)no un confine, determina(va)no una scelta di campo.
Intendiamoci, ogni riflessione sul calcio è intrisa di nostalgia canaglia. Anche quei quattro gatti rimasti rivoluzionari dentro, se hanno superato i trenta e parlano di questo argomento, diventano conservatori senza illuminazione. Però: è un diritto. Di più: pur essendo relativisti, questo è uno di quei pochi casi in cui sì è convinti di stare dalla parte della ragione. Il calcio moderno è imploso, ha subito un big bang che ha cancellato ogni punto di riferimento: la formazione tipo da ricordare a memoria, i capitani bandiera (a parte Totti, avvocati permettendo). E non c’è allenatore in Italia che duri quanto un’automobile. Restava la maglia. Poi hanno cominciato a confondere le idee anche con quella. E ci saran traumi più grandi, ma se per tutta la vita sei stato juventino e ti han chiamato "zebra" come la metti quando sbucano fuori dieci omini metallizzati con l’aggiunta di Buffon che va per conto suo: rosso acceso, verde pisello, hot pink?
E’, anche, una questione di linguaggio. Specie nel giornalismo. Per non ripetere troppe volte nel titolo e nel testo il nome di una squadra il sinonimo è la maglia, sono i suoi colori. Puoi dire "Sampdoria" o "i blucerchiati", ma come fai se i cerchi son rimasti, ma il resto della maglia è nera? Quando la Fiorentina fallì ricominciò chiamandosi Viola. Il nome era la maglia, era il suo colore. Potrebbe una squadra del genere presentarsi con una tenuta lilla per una "scelta dello sponsor tecnico"? Se il Torino va in bianco (come spesso gli accade), di che cosa parla quel giornalista tifoso che da anni tiene una rubrica intitolata "Granata da legare"?
La maglia non è un accessorio della squadra. La maglia è la squadra. L’accessorio è lo sponsor, tecnico o meno. Quello è il portato dei tempi, della fine delle ideologie, delle mezze stagioni e della capacità di distinguere. Viviamo, soprattutto a questa latitudine, in un’epoca daltonica, dove il rosso al semaforo è un’opinione, quindi sovvertibile e interpretabile come verde e dove ogni colore può essere cambiato se c’è una valida ragione per farlo e la validità si misura contando gli zeri che seguono una qualsiasi cifra. Ti sei innamorato di una bruna riccioluta, torni a casa e ti presentano una bionda col caschetto. Può piacerti, o anche no. "Non capisco, ma mi adeguo" era il tormentone di un comico (Maurizio Ferrini) a una trasmissione di Renzo Arbore. Sembra diventata la massima di un popolo remissivo per cui tutto quel che accade è inevitabile. Anche i sussulti delle tifoserie si vanno diradando. A volte è un bene, altre no.
La maglia identifica la squadra più del nome, che va condiviso con la città o il Paese. Ci sono solo undici furie rosse (mica fucsia), undici azulgrana (visti in giallo evidenziato sembravano pulcini in batteria), undici azzurri. Anzi c’erano, prima della centrifuga. Il problema non è che "non ci sono più bandiere". E’ che si è stinta la bandiera. Ma se i colori diventano intercambiabili quanto le convinzioni, come si sceglie da che parte stare?
fonte: LaRepubblica
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