Serie A: l’invasione dei retro sponsor. Opportunità o segnale di crisi?
(di Marcel Vulpis) – Fino a pochi anni fa la maglia da calcio dei club di A era sacra: al massimo al suo interno trovavano spazio due marchi sponsor, quello tecnico (già la proliferazione degli “omini” Kappa sulle spalle di alcune maglie ha fatto storcere il naso ai puristi delle jersey) e il main commerciale.
Insieme con la Premier league, la serie A è sempre stata la serie calcistica più “pulita” e integralista sotto il profilo commerciale. Poi, negli ultimi sei anni, è arrivata la crisi economica. Da lì l’idea del “second sponsor“, o, comunque, un’area espositiva più grande rispetto agli iniziali 250 cm quadri. Il problema è che, come è successo, nella scorsa stagione ben sei club sono partiti senza main sponsor e solo tre di questi avevano al massimo il second partner. Un autogol nell’autogol in termini di immagine, sia per i club “naked”, che per l’immagine valoriale dell’intera serie A.
Adesso arriva l’esplosione del fenomeno retro-sponsor (in stile calcio spagnolo, dove è molto diffuso, così come in Francia o nei paesi del Nord Europa). Lo presenta quest’anno l’Inter (Driver), l’Udinese (Magnadyne), il Napoli (Kimbo) e lo cercano club importanti come AS Roma e Fiorentina (restano fuori per il momento AC Milan e Juventus).
Non è una moda, purtroppo. E’ una necessità. E’ la terza “freccia” nell’arco che i club cercano di scoccare, pur di portare a casa qualche nuovo contratto. E anche in questo caso vedrete due stili commerciali totalmente differenti: club che riempiranno tutti gli spazi a disposizione (incluso quello retro) pur di far cassa e società che non troveranno né il main, né il second e, a quel punto, si dovranno accontentare del retro. Bisogna essere onesti: è crisi “nera” a livello commerciale. Si cerca di far cassa chiaramente, perché il calcio professionistico in Italia è sempre più oneroso, e i presidenti di A, B e ancor più Lega Pro (dove la redistribuzione dei diritti tv praticamente non esiste o al massimo è residuale), non riescono, non solo a fare impresa, ma anche a trovare le risorse per gestire queste società, che assorbono denaro, ma non ne attraggono.
Sicuramente sarà un problema congiunturale, questo sì, ma anche una criticità in ambito manageriale, non sempre di altissimo profilo, oltre all’assoluta (al di là di pochi casi) incapacità di avere una visione di scenario di medio/lungo periodo, senza farsi fagocitare da attività che dovrebbero essere gestite al massimo da un impiegato del club di turno.
I presidenti dovrebbero avere un ruolo istituzionale e di rappresentanza, come in qualsiasi organizzazione aziendale che si rispetti, e dovrebbero lasciare al management la gestione della società (mandandoli a casa a fine stagione se i risultati non sono in linea con le attese). Invece i manager diventano gli “impiegati di lusso” (considerati alcuni stipendi) del patron-presidente, che vive il club e la società come un giocattolo. Ma come tutti i giocattoli è solo questione di tempo: prima o poi si rompono.
In sintesi, il retro sponsor può anche essere una opportunità, se si riesce a chiudere il valore della maglia ad un livello più elevato (considerando la somma delle tre posizioni commerciali) rispetto a quello di un singolo main sponsor. Certamente non può essere l’offerta della disperazione a questo o quello sponsor, pur di portare a casa soldi da mettere nelle casse societarie.
Quello che ci sembra un po’ mancare è una strategia organizzata e diretta da parte della Lega. Tutto è troppo lasciato al singolo club come azione di libero arbitrio. La Lega dovrebbe coordinare e super-visionare il tutto, perché poi, se alla partenza del nuovo campionato dovessimo avere molti club senza main sponsor, ma con loghi residuali in qualche altra parte della divisa di gioco, a farne le spese è l’immagine “scoordinata” del prodotto serie A. E questo è un vero peccato. Perché la Lega deve tutelare, nel suo complesso, il valore del prodotto serie A, al di là dei singoli diritti (tutti legittimi) dei club di calcio.
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