Sport&Affari – Fenucci (U.s. Lecce) intervistato da LeccePrima.it
In attesa dell’ultimo bilancio, una cosa è certa: “Le retrocessioni dalla A alla B hanno richiesto più dei 2/3 delle risorse immesse nella società dalla proprietà, e ognuna di esse ha determinato coperture di perdite tra i sette e i diciannove milioni di euro” così come è anche vero “che siamo stati promossi in quattro dei cinque campionati cadetti disputati, un dato che credo abbia pochi eguali in Europa”.
Dottor Fenucci, a proposito di conti, la giustizia sportiva ha confermato la delibera della Lega in virtù della quale 7,5 milioni di euro vengono stornati dalle neopromosse alle squadre impegnate in Europa League…
Il problema non attiene alla sola delibera ma a tutto il sistema contributivo a carico delle neopromosse in virtù del quale in questa stagione dovremmo rinunciare a 5 milioni di euro. Una metà andrebbe alle tre squadre in Europa League, l’altra metà alle società rimaste in serie B in ragione di un principio di mutualità che noi non contestiamo in via teorica ma che, a causa dei maggiori trasferimenti garantiti dalla Serie A alla B – dai 57 milioni del 2009-10 si passa agli 80 circa previsti per questa stagione – non ha più ragione di esistere.
Tanto per essere concreti, rispetto all’ultimo campionato di A i nostri ricavi televisivi diminuiranno, situazione paradossale pensando che la Lega di A ha sottoscritto il più importante contratto della sua storia, circa 1 miliardo di euro totali. Nel 2008-09 dalla cessione dei diritti abbiamo incassato 19,8 milioni di euro.
Quest’anno, tolti i 5 milioni, ne dovrebbero rimanere, uso il condizionale perché la ripartizione non è ancora definitiva, 17,5 determinando un problema non solo in valore assoluto – per quanto riguarda cioè le ricadute sul bilancio – ma anche dal punto di vista competitivo. Alcune società di fascia media, nostre concorrenti, vedranno crescere i propri ricavi dai 6 ai 10 milioni di euro, potendosi permettere, come è avvenuto, una sostanziale continuità tecnica senza essere costretti a cedere giocatori.
Un’altra nota dolente riguarda la sponsorizzazione. Il presidente Semeraro ha preannunciato un accordo triennale con un importante istituto bancario. Di certo si sa solo che non è espressione del territorio. Cosa manca al Salento per esprimere una partnership economicamente all’altezza? Risorse o volontà?
Un primo dato dal quale non si può prescindere è la situazione economica generale. Le aziende riducono gli investimenti per la comunicazione e i dati ufficiali registrano una minore propensione a veicolare il proprio marchio attraverso il calcio.
Il dato relativo al mercato delle sponsorizzazioni italiano, meno 25% circa, è assolutamente il peggiore in Europa dove alcuni paesi, Inghilterra e Germania in primis, evidenziano una certa resistenza alla crisi. Nello specifico del contesto salentino ci sono due ulteriori fattori da prendere in considerazione. Il primo riguarda le aziende presenti sul territorio che sono spesso di dimensioni medio piccole oppure operano per conto terzi, senza un brand proprio.
Il secondo è legato alla convinzione più o meno diffusa che questa proprietà possa fare da sola. Manca la volontà di supportare, anche economicamente, una squadra che comunque rappresenta anche un veicolo di promozione del territorio. Basti pensare al marchio d’area Salento d’Amare.
Per contenere le perdite di bilancio ognuno si organizza come può. Oltre al salary cap quali altre misure state adottando?
Quanto al tetto per gli stipendi cerchiamo di rispettare un limite complessivo, non individuale. Il vero elemento di novità risiede nella struttura dei contratti che abbiamo stipulato con i calciatori: emolumenti legati alla categoria e una parte premiante legata agli obiettivi della squadra e al rendimento individuale. Vincolando parte degli stipendi ai risultati abbiamo creato un meccanismo che protegge di più la società dai rischi economici connessi all’attività sportiva.
In altri paesi i ricavi da stadio sono tangibili. Perché in Italia no?
Esiste un problema strutturale ed un altro di cultura. Quanto al primo è evidente che gli stadi sono chiaramente inadeguati a reggere il confronto con l’offerta televisiva. Non parlo di negozi e ristoranti ma sopratutto di elementare fruibilità: tribune scoperte, posti a sedere scomodi, impianti vecchi e poco funzionali.
Assolutamente poco attrattivi soprattutto per il pubblico più giovane abituato a standard qualitativi per il tempo libero più elevati. Bisognerebbe offrire un’ alternativa più seducente al divano ed alla tv. Tanto più in un bacino territorialmente esteso come quello salentino nel quale la distanza dallo stadio rimane un fattore negativo determinante. Il sistema calcio è in clamoroso ritardo sotto quest’aspetto.
I dirigenti dei grandi club, che hanno sempre guidato il movimento grazie anche alla capacità di influenza sulla politica, hanno per molti anni trovato più comodo reperire le risorse necessarie ampliando i format dell’offerta televisiva tralasciando qualsiasi azione volta a recuperare le presenze allo stadio. Basta andare in un’ altra città europea, Monaco o Copenaghen, Londra o Amsterdam, per capire come si possa vivere con entusiasmo l’evento della partita e quanto riesca a generare, anche economicamente, la gestione moderna di uno stadio.
Il primo tassello per un futuro sostenibile non può che essere un impianto di proprietà unito ad un investimento, anche culturale, verso i tifosi, sopratutto i giovani, che oggi sono lontani dalla frequentazione delle partite.
I risultati sportivi, in effetti, sembrano sempre di più legati alle potenzialità economiche…
Maggiori entrate significano maggiore competitività sportiva. Già siamo destinati a vedere sempre più o meno la stessa classifica, come è accaduto negli ultimi anni. Anche il passaggio dalla vendita soggettiva a quella collettiva ha modificato poco i rapporti economici tra le società; tra le prime tre e le ultime tre il rapporto di ricavi televisivi è maggiore di 4 a 1.
E’ come se alcune squadre fossero predestinate a lottare per scudetto e Champions, altre quattro o cinque per l’Europa League e tutte le altre a barcamenarsi per la permanenza. In altri paesi calcisticamente evoluti non è così, esiste una ripartizione molto più equa per cui la competizione, soprattutto in Germania, è più intensa e capita di vedere anche club neopromossi che lottano a lungo per le prime posizioni.
Nell’era del calcio televisivo quanto incide la voce pubblico?
Dipende dal club. Per i grandi non molto; per i medio piccoli può essere decisivo. Mi spiego: alcune società in competizione con noi possono contare dai 3 ai 6 milioni in più di ricavi dallo stadio. Questo consente di poter disporre di maggiori risorse da destinare al settore tecnico, con l’acquisizione di calciatori che spesso possono fare la differenza.
Ma sulla flessione delle sottoscrizioni avrà una qualche influenza, oltre alla questione della tessera del tifoso, anche l’impossibilità di rateizzare l’abbonamento, come invece avvenuto negli anni passati?
Comprendo le ragioni di chi non ha la possibilità economica di fare l’abbonamento ma credo che questo sia solo parzialmente legato alla rateizzazione dello stesso. Nella scorsa stagione un quinto dei nostri abbonati avevano fatto ricorso a questa forma di pagamento. La ragione per la quale quest’anno non è stato possibile adottare questa formula risiede anche in alcune criticità del settore del credito al consumo, conseguenza anche questa delle crisi finanziaria. Gli istituti bancari che ci hanno accompagnato negli ultimi anni erano meno disposti a rinnovare gli accordi alle precedenti condizioni.
fonte: www.lecceprima.it
Pubblichiamo una interessante intervista all’a.d. dell’U.s. Lecce (Fenucci) sul futuro del club salentino e più in generale del calcio tricolore (soprattutto sotto il profilo economico).
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