Sport&Affari – I mali del calcio italiano e il confronto con la Spagna e la Gran Bretagna
Oltre 2 miliardi di debiti generati nella stagione 2008-2009, monte-salari dei giocatori che pesano per il 62% sulle entrate, un mercato troppo sbilanciato sui diritti. È questa la fotografia (in negativo) del sistema calcio italiano, incapace di generare ricavi tali da coprire almeno i costi. L’altro nodo è dato dall’impossibilità, considerati gli attuali patrimoni netti della stragrande maggioranza dei club, di competere ad alto livello con altri mercati europei.
Il dato assume un valore ancora più negativo se messo a confronto con le strategie marketing e finanziarie delle principali realtà, a partire da quelle spagnole e inglesi. In Italia nessun club di prima divisione possiede uno stadio, in Inghilterra è l’esatto contrario. Basterebbe seguire questo modello per produrre ricavi e invece siamo ancora nel pantano legislativo di un ddl (il disegno di legge sugli stadi a firma Lolli-Butti), che avanza lentamente nelle aule parlamentari.
Più in generale, Michel Platini, presidente dell’Uefa (Union of european football associations), ha promesso d’intervenire entro due-tre anni con l’introduzione del salary cap (un tetto massimo agli ingaggi delle squadre). Nel frattempo, sta invitando i presidenti a un vero e proprio fair play finanziario. Facile a dirsi, difficile da applicare nelle rispettive realtà locali, soprattutto se si tratta di grandi piazze europee. Il modello Real Madrid è una continua «offesa» alla politica di contenimento dei Platini, ma non c’è soluzione, almeno per il momento. I soldi ci sono e vengono utilizzati per acquistare il bene primario di qualsiasi club: la proprietà dei cartellini dei calciatori.
Florentino Pérez, numero uno delle Merengues, può contare su tre leve: il marketing (con particolare attenzione allo sviluppo del brand all’estero), i rapporti consolidati con le banche (Caja Madrid e Banco Santander) e il jolly del contratto dei diritti tv. Un accordo record firmato con MediaPro, per un totale di 1,1 miliardi di euro spalmati su sette anni.
L’unione di questi tre fattori ha permesso al presidente del Real Madrid, in poche settimane, di ingaggiare prima Kakà, poi Cristiano Ronaldo e successivamente Raul Albiol e Karim Benzema. In totale 216 milioni di euro. Quattro nuovi contratti che valgono quanto il fatturato di una Juventus nei tempi d’oro.
Sempre Pérez ha deciso d’investire in un nuovo stadio da 140 mila posti, che dovrà prendere il posto dell’attuale Santiago Bernabeu (più di 82 mila posti a sedere). I costi stanno lievitando, pertanto devono obbligatoriamente crescere anche i ricavi. In Spagna, ogni secondo, viene venduta una maglietta con il numero «8» di Kakà (fonte: Marca). Il Real Madrid ha punti vendita in tutte le principali città iberiche; nessun club italiano, invece, può vantare un simile sistema commerciale. E il gap marketing tra le realtà tricolori e quelle spagnole-inglesi si allarga anno dopo anno. Ma non c’è bisogno di analizzare il Manchester United o il Chelsea per comprendere la differenza con il marketing tricolore.
Un caso per tutti. Il West Ham (appena un titolo nazionale nella sua storia di Premiership), oggi in mani islandesi, presenta ogni quattro mesi nuovi prodotti di merchandising e i negozi sono sempre frequentati, anche nei feriali. In Italia non lo fa nessuno. Già è tanto se prima dell’inizio della stagione viene presentata la maglia di gara replica, il prodotto di punta del merchandising italiano. Per avvicinarsi, quindi, al modello Pérez diventa obbligatorio costruire gli stadi e dotarli di strutture commerciali. Ma il tutto non avverrà prima dei prossimi quattro-cinque anni.
fonte: ItaliaOggi
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