Toro stagione ’76: quel sentiero granata tracciato 40 anni fa
(di Massimiliano Morelli)* – Dunque.. i primi nomi che affiorano alla mente sono quelli di Paolo Pulici e Francesco Graziani, ma anche quelli di Claudio Sala e “giaguaro” Castellini…Ecco, se si ponesse a chiunque una domanda concentrata sul Torino che conquistò il primo Tricolore dopo Superga – e nel contempo, a oggi, l’ultimo scudetto dei figli del Filadelfia – sono questi i nomi che affiorerebbero nella mente.
Ventisette anni dopo quel maledetto 4 maggio del ’49, il 16 maggio del 1976, il titolo lo conquistò la squadra allenata da Luigi Radice, allenatore all’epoca quarantunenne fautore del pressing, tipo il calcio totale olandese d’inizio anni Settanta per intenderci. Fu Toro che vinse in rimonta sulla Juventus, che al giro di boa aveva un vantaggio di tre punti e cinque a undici giornate dalla fine. E fu Toro che vinse alla grande, infliggendo un doppio 2-0 nei derby, offrendo alla platea scampoli di gioco esaltanti. Pensate a un trionfo impensabile al tramonto della prima giornata dopo la sconfitta di Bologna, l’uno a zero griffato da Bertuzzo, attaccante calcisticamente nato proprio con la maglia granata.
Una beffa durata il tempo d’un amen e subito vendicata una settimana dopo col triplettista Pulici, mattatore contro il Perugia. Strani incroci, quelli del calcio, il Torino poi sarebbe rimasto imbattuto fino alla seconda giornata di ritorno, quando venne sconfitto dagli umbri in gol anche con Renato Curi. Lui, proprio lui, lo sfortunato mediano che sarebbe poi morto in campo due anni dopo ma che il 16 maggio regalò al Grifone quel gol vincente contro la Juventus che stoppò i bianconeri affidando il campionato ai torinisti. Strano davvero il calcio, in squadra oltre al “Poeta” c’era un altro Sala, Patrizio, ma i due neanche erano parenti; c’erano Zaccarelli e Pecci, perfetti nelle geometrie di metà campo e Salvatore Garritano, uno che avrebbe fatto il titolare ovunque e che solo in quella squadra veniva costretto in panchina perché titolari erano i “gemelli del gol”; c’era una Maginot dove Santin, Caporale, Salvadori e Mozzini difendevano sempre a testa alta; e c’erano carneadi come Bacchin, che giocò solo una gara con la maglia del Toro, ma quel gettone fu utile per laureare anche lui campione d’Italia. Fu soprattutto la squadra di Orfeo Pianelli, presidente per vent’anni in sella e di Giorgio Ferrini, 566 presenze con la maglia torinista.
Ferrini morì trentasettenne nell’anno dello scudetto. Aveva lasciato da poco il calcio giocato e faceva da “secondo” a Gigi Radice. Ecco, chi è davvero innamorato del pallone, non può evitare di ricordare anche il “Diga” nell’olimpo dei vincitori. Poi, tutto il resto, è noia.
- giornalista sportivo e scrittore romano
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