Un hombre vertical chiamato Gigi Riva
(di Massimiliano Morelli) – Chi ha ammirato Gigi Riva non metterà mai in contrapposizione “Rombo di tuono” con gli altri. Perché lui, Riva Luigi da Leggiuno, classe 1944, era il bomber, punto e basta. Unico, inimitabile e inarrivabile, capace di vincere in otto stagioni vissute in serie A – si, gli annali fanno “capire” che furono un paio in più, ma tralasciano le stagioni in cui restò fermo ai box per gli interventi assassini del lusitano Americo e dell’austriaco Hof – tre volte la classifica marcatori e uno scudetto col Cagliari, unicum sardo nei novantacinque anni di storia del club isolano. Per tacere di quei trentacinque gol prodotti nelle 42 partite vissute con la maglia della nazionale, record irripetibile e media stratosferica. In Azzurro dopo di lui sono passati Boninsegna e Bettega, Paolo Rossi e Graziani, Altobelli e Schillaci, Baggio e Vialli, Totti e Del Piero, ma quel primato è stato impossibile da agguantare per chiunque.
E se solo non avesse perso quei due anni di calcio giocato per aver onorato proprio la maglia dell’Italia, offrendo due volte le gambe, oltre a incrementare i successi della nazionale, avrebbe costretto i falegnami del Cagliari calcio ad ampliare la bacheca del club, perché già l’anno dopo lo scudetto i rossoblu stavano volando ancora in testa alla classifica con lui, e senza di lui per sei lunghi mesi scivolarono fino al settimo posto. Strano il calcio, nel ’70/’71 il Cagliari vinse in casa dell’Inter (1-3) tre giorni prima che al Prater di Vienna uno stopper senza scrupoli lo azzoppò a trenta metri dalla porta. Tramortita a San Siro l’Inter, campione d’Italia l’Inter, roba da andare ai pazzi per quel secondo scudetto che avrebbe dovuto incastonarsi nella gestione-Scopigno. Senza Riva, che oggi compie 71 anni, era un altro Cagliari. Maledetta sorte per il centravanti più forte del dopoguerra e per il quale la Juventus avrebbe speso due miliardi e sei giocatori a scelta. Ma “Giggirriva”, senza orecchini, piercing e tatuaggi sul corpo, non tradì il suo popolo. Perché l’“hombre vertical” è uomo di parola.
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